È ancora buio alle 6.30 del 28 dicembre 1943 quando le milizie fasciste fucilano i sette fratelli Cervi e Quarto Camurri al poligono di tiro di Reggio Emilia. L’esecuzione, preceduta da torture sui prigionieri, è tenuta nascosta e si inserisce nell’adesione fascista alla pratica stragista. Nel giro di un mese e mezzo gli uomini della Repubblica sociale italiana compiono a novembre la strage al Castello di Ferrara (11 vittime) e fucilano 13 partigiani tra il 7 e il 22 dicembre in provincia di Bergamo. Il 30 gennaio, ancora nel reggiano, è fucilato don Pasquino Borghi che aveva collaborato con i Cervi, assieme ad altri otto partigiani.
Un sistema di terrore in un momento in cui non sono ancora avvenuti scontri in campo aperto tra partigiani e nazifascisti: nell’Appennino emiliano la prima battaglia avviene il 15 marzo, poi pagata con la strage nazista di Cervarolo che costa la vita a 24 uomini. Dal 25 novembre anche il padre Alcide è rinchiuso in prigione con i suoi figli. A lui viene risparmiata la vita: “sei troppo vecchio”, gli dicono, ma non gli permetteranno di salutare per l’ultima volta i suoi ragazzi.
I sette fratelli Cervi appartengono alla fase aurorale della Resistenza, quella più difficile delle prime bande, composte da pochi coraggiosi e animate da un ribellismo spontaneo, in una situazione ancora in divenire sia sul piano della coscienza politica sia nell’impianto organizzativo. Le prime azioni consistono nei disarmi dei presidi della Rsi per acquisire armi, nell’esecuzione di singoli attentati, nella ricerca di luoghi di rifugio. È il percorso cospirativo della banda Cervi che si muove tra la montagna e la pianura. La grande casa colonica dei Cervi, nel comune di Gattatico, diviene un luogo di rifugio per gli ex prigionieri alleati, una prima base di appoggio. Nel mettere a disposizione la loro abitazione, i Cervi mostrano il loro impegno e la loro generosità, ma questa scelta non tiene conto della natura del conflitto che si sta sviluppando e che per i partigiani richiede il rispetto di rigide forme di clandestinità.
Partendo da una formazione cattolica, con l’adesione al Partito popolare del padre Alcide, l’orientamento politico della famiglia si sposta durante il regime verso il Partito comunista, spinta dall’impegno del terzogenito Aldo (34 anni nel 1943). Una militanza politica che nello stile del tempo si coniuga con uno sforzo di acculturazione. Aldo, nel 1933, aveva aperto una biblioteca pubblica a Campegine, ma la curiosità dei Cervi è rivolta anche allo studio dell’agricoltura, per migliorare il rendimento dell’avara terra che hanno in affitto. Aperti alle innovazioni sul lavoro, i Cervi sono i primi nella zona a disporre di un trattore.
Il 25 luglio 1943, quando il regime fascista si sgretola su se stesso, i Cervi festeggiano con una grande mangiata di tagliatelle: nulla sembra presagire una tragedia ormai prossima. Nella casa colonica vivono 23 persone: oltre ai sette fratelli ci sono il padre, la madre Genoeffa, quattro mogli e dieci bambini. All’alba del 25 novembre, una spedizione di almeno 35 uomini della Rsi, informati da un delatore, circonda la casa. L’obiettivo è catturare i Cervi e tutti gli ex prigionieri che si sono rifugiati da loro. Sfocia un conflitto armato, benché gli assediati siano a corto di munizioni. Gli assalitori appiccano il fuoco al fienile e alla stalla, dove le mucche sono una parte importante del patrimonio della famiglia. I Cervi si arrendono, anche per evitare ulteriori conseguenze alle donne e ai bambini. Il 28 dicembre giunge la fucilazione, in risposta all’uccisione del segretario del fascio di Bagnolo in Piano avvenuta il giorno prima.
Alcide Cervi riesce a evadere dal carcere il 7 gennaio approfittando di un bombardamento. Torna ai resti del suo podere nel quale riprende a lavorare con le nuore, ma la casa è colpita da un altro incendio doloso nell’ottobre del 1944 che causa la morte della moglie per crepacuore. Dopo la guerra, Alcide Cervi girerà l’Italia e il mondo raccontando la sua storia, poi pubblicata nel 1955 in un libro più volte rieditato: I miei sette figli.
Per molti sarà semplicemente papà Cervi, un simbolo di sofferenza, di tenacia e di mitezza. Alcide Cervi morirà a 94 anni, il 27 marzo 1970. A Reggio Emilia ad accompagnare il suo feretro ci saranno oltre 200mila persone.