Scongiurata la procedura di infrazione per la legge di Bilancio 2019, lo spread ha dato respiro ai titoli di Stato italiani tornando in zona 250 punti. Ma i primi mesi del 2019 saranno un test importante per i conti pubblici. L’anno alle porte sarà infatti impegnativo per il Tesoro, che dovrà rifinanziare il debito per un ammontare di almeno 350 miliardi di euro. Solo a gennaio e febbraio, considerando anche i Bot, sono previste emissioni per oltre 80 miliardi e a marzo andranno raccolti altri 36 miliardi. Nei dodici mesi arriveranno a scadenza 290 miliardi di Btp, Bot, Ctz e Cct che andranno rinnovati (i Bot in modo quasi automatico e contestuale, i Btp con la possibilità di uno scarto temporale generalmente non oltre le due o tre settimane). E a questi si aggiungeranno circa 57 miliardi di euro di debito aggiuntivo da coprire. Come d’abitudine, poi, le emissioni tenderanno a concentrarsi nella prima parte dell’anno: nel primo trimestre il Tesoro cerca di mandare in porto più del 25% delle emissioni programmate per l’intero anno.

Gennaio si annuncia così come un mese particolarmente denso, con un ammontare complessivo di 51 miliardi. Scadono Bot per 14 miliardi a cui si sommeranno nuove emissioni di Btp per una ventina di miliardi, 7 miliardi di nuovi Bot, 5 miliardi di Ctz e 2,5 di Cct. In febbraio scadranno titoli per un ammontare complessivo di 36 miliardi, tra cui 23 di Btp. A marzo si replica con altri 36 miliardi di euro di titoli. In particolare il primo giorno del mese scadrà un Btp decennale da 24 miliardi di euro, emesso nel settembre 2008, con tasso Bce allora al 4% e dunque cedola sensibilmente più alta (4,5%) rispetto ai valori degli ultimi anni. Il Btp a 10 anni, quello più frequentemente utilizzato per misurare lo spread, è ritenuto quello più indicativo per cogliere l’umore con cui gli investitori guardando al paese. Le aste di questo tipo rappresentano quindi un test particolarmente importante.

Ad aprile i titoli in scadenza scendono a 22 miliardi di euro, per lo più di breve durata. A maggio però il gioco torna a farsi duro: 35 miliardi di titoli da rinnovare tra cui 17 miliardi di Btp a 5 anni. Come di consueto l’estate si presenta invece meno impegnativa. Sei miliardi a giugno, poco meno di 8 a luglio, 21 miliardi ad agosto. La ripresa di settembre sarà però subito dura: quasi 50 miliardi di titoli da piazzare e un Btp decennale da 24 miliardi di euro e cedola al 4,5% da rinnovare il 15 del mese. Ad ottobre 32 miliardi tra cui 13 miliardi di Btp. A novembre scadrà invece solo un Cct con controvalore di 12,4 miliardi e a dicembre un Btp a 5 anni da 15 miliardi. Nel 2020 il conto complessivo dei rinnovi si abbasserà a circa 200 miliardi, nel 2021 un poco più giù a 185 miliardi.

Lo scorso novembre è arrivata una doccia fredda sul Btp Italia, titolo concepito principalmente per i piccoli risparmiatori il cui collocamento si è chiuso con un flop. Il Tesoro sperava in un incasso vicino ai dieci miliardi ma ci si è fermati a poco più di due. Il secondo peggior risultato di sempre per questo tipo di titoli. Un segnale da non sottovalutare secondo gli operatori, che però ricordano anche come il mercato lo facciano gli investitori istituzionali e sia da lì che possono arrivare i potenziali pericoli. Come certificato da Banca d’Italia dall’aprile scorso si è assistito a un progressivo disimpegno di investitori esteri nel debito italiano. Banche e fondi stranieri hanno scaricato Bot e Btp per oltre 50 miliardi di euro. Vendite che sono state compensate dagli acquisti di banche e assicurazioni nazionali. Aumentando i titoli di Stato in loro possesso, oggi intorno ai 370 miliardi di euro, questi soggetti legano però ancora più strettamente le loro fortune o sfortune a quelle dello Stato. Un’unione che moltiplica i rischi per la tenuta del sistema in caso di difficoltà. Inoltre, dopo gli sforzi di questi mesi, è difficile che le istituzioni finanziarie nazionali possano mantenere questi ritmi di acquisto.

L’accordo raggiunto tra Roma e Bruxelles sulla manovra potrebbe favorire la discesa dei rendimenti e il ritorno di interesse e fiducia da parte di investitori esteri. Sul piatto della bilancia resta in compenso il rallentamento dell’economia di cui ha preso atto anche il governo riducendo la previsione di crescita del pil dall’1,5 all’1%. Secondo gli addetti ai lavori non dovrebbe avere un grande impatto invece l’annunciata fine del quantitative easing, il programma di acquisto titoli della Banca centrale europea.

La presenza sul mercato dell’istituto centrale continuerà infatti a farsi sentire poiché Francoforte smetterà di acquistare titoli aggiuntivi ma continuerà a rinnovare quelli che arrivano a scadenza. Nel caso dell’Italia si tratta di circa 50 miliardi di euro l’anno. In quest’ottica non dovrebbe avere particolari conseguenze la periodica limatura per l’Italia dei cosiddetti “capital key”, vale a dire delle quote dei singoli paesi euro nel capitale della Bce calcolate ogni cinque anni in base a valore del Pil e popolazione, e in base a cui si è scelto di parametrare la suddivisione degli acquisti di titoli del Qe. Nel complesso la revisione è andata a scapito soprattutto dei paesi mediterranei. La quota italiana è stata rivista dal 12,3 all’11,8% così come sono scese quelle di Spagna, Portogallo e Grecia. Viceversa sono state incrementate di alcuni decimali quelle di Germania, Francia, Austria e Irlanda.

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