Il sedicente “governo del cambiamento” ha chiuso il 2018, anno primo dalla sua nascita, con fuochi d’artificio sul versante dell’anticorruzione. Ma anche, come par condicio, sul fronte della corruzione. Le due anime di questo esecutivo sembrano aver trovato almeno in questo campo un armonico bilanciamento: il Movimento 5 Stelle, quello dello slogan “onestà onestà”, passa all’incasso intestandosi una legge cosiddetta “spazzacorrotti” che – secondo le accorate parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede – “porta una vera rivoluzione nella lotta alla corruzione”, ed “è motivo di orgoglio e commozione. Si apre una prospettiva di onestà per il Paese e ci permette di andare a testa alta nel mondo”. Ma l’alleato leghista dalle casse pignorate, forte dell’esperienza nel far svanire nel nulla i fondi pubblici, ha rilanciato in contropiede all’ultimo minuto, facendo inserire nella legge finanziaria blindata un codicillo che apre un varco alla deregolazione nell’assegnazione dei contratti pubblici da parte delle stazioni appaltanti, quadruplicando (circa) la soglia di valore degli affidamenti diretti di lavori pubblici, forniture, servizi, senza gara e quindi a più alto rischio di malaffare.
Proviamo allora a tracciare un bilancio provvisorio in questo scenario in chiaroscuro.
Di certo la legge approvata in via definitiva il 18 dicembre 2018 introduce alcune innovazioni dalla valenza positiva. Si pensi in particolare alla trasparenza delle donazioni a partiti, fondazioni e associazioni politiche; la previsione di condizioni di non punibilità per i corrotti che collaborano; la possibilità di perseguire anche in assenza di querela la corruzione tra privati; e – fin troppo enfatizzata rispetto alle sue potenzialità nel discorso pubblico – l’introduzione dell’agente sotto copertura nei reati contro la pubblica amministrazione. Convince di meno l’ennesimo inasprimento delle pene, che si accompagna a una specie di “ergastolo professionale” (il cosiddetto “Daspo a vita” per i corrotti), peraltro facilmente aggirabile per le imprese tramite prestanome o modificando i propri rappresentanti legali. Can che abbaia sempre più forte, lo Stato, contro i corrotti, ma nel mordere non risulta minimamente credibile: quelle pene in astratto ormai severissime non le sconta praticamente alcun “colletto bianco”, cancellandone qualsiasi effetto deterrente. Così come improvvisato e presumibilmente inefficace risulta il nuovo regime della prescrizione, per quanto ancora da interpretare nella cornice di un’annunciata “riforma di sistema” dell’ordinamento giudiziario, tutta da delineare: a che vale “congelare” il procedimento giudiziario dopo il giudizio di primo grado se quasi tre quarti delle prescrizioni si realizzano prima ancora di arrivare al dibattimento, con le carte che riposano – un eterno riposo, tombale – sul tavolo del pubblico ministero?
Insomma, nessuna delle misure tanto sbandierate sembra in grado di far diventare l’Italia un “faro” per l’Europa e tanto meno di “spazzare via” la corruzione, se non facendola scivolare come polvere sotto il tappeto, rendendola ancor più difficile da scoprire. Mentre brillano, anzi abbagliano per la loro assenza provvedimenti necessari, e raccomandati da molte organizzazioni internazionali: ad esempio, nessuna norma per limitare lo strapotere delle lobby, che spesso non hanno più bisogno di pagare per indurre i funzionari a violare le norme visto che riescono a comprarsi direttamente il contenuto delle leggi e dei principali provvedimenti governativi, con forme di “corruzione legalizzata” ormai invulnerabili all’azione dei magistrati – facile leggere in questa prospettiva i trattamenti di assoluto privilegio assicurati (e secretati) alle concessionarie autostradali, ad esempio. Silenzio tombale sul ruolo dell’Autorità anticorruzione, giovane istituzione che anziché allevata e sostenuta nei suoi passi come presidio di prevenzione sarà depauperata di competenze, secondo quanto si prospetta nella futura riforma del codice degli appalti. Forse una punizione per farle scontare una presunta contiguità con gli avversari politici che l’hanno istituita, alla faccia della natura bipartisan della lotta alla corruzione? Neanche un comma per rafforzare o favorire un impiego più esteso degli strumenti di trasparenza, partecipazione e accesso civico dei cittadini ai processi decisionali della pubblica amministrazione.
Purtroppo creare grandi aspettative – mettendo una spunta in più nella lista dei “fatto!” – su un fronte complicato come quello della lotta alla corruzione può forse portare effimeri consensi nell’immediato, ma accresce esponenzialmente il rischio che di fronte alle perduranti manifestazioni di un fenomeno in Italia ben radicato in troppe aree di attività politico-amministrativa, e che non si debella lanciandogli contro l’hashtag #spazzacorrotti, si alimenta la disillusione rabbiosa e irredimibile di larghe fasce dell’elettorato nei confronti delle istituzioni pubbliche e della classe politica. Un rancoroso livore nei confronti delle “élite corrotte” da tempo terreno di caccia dei leader neo-populisti, per ora in Italia regno quasi incontrastato degli abili propagandisti della Lega.
E proprio a una “manina” leghista si deve il capolavoro criminogeno della legge finanziaria: l’innalzamento per tutto il 2019 (poi si vedrà) a 150mila euro della soglia entro la quale le stazioni appaltanti potranno procedere tramite affidamento diretto dei contratti pubblici, senza pubblicità né trasparenza, col solo vincolo di “consultare” tre operatori. Gli effetti sarebbero deflagranti: secondo le prime stime il 40% dei contratti per lavori pubblici e l’80-85% di quelli per servizi andrebbero assegnate tramite affidamento diretto, con la massima discrezionalità. Non è chiara la giustificazione di un provvedimento capace di sollevare voci critiche che spaziano dal presidente dell’Anticorruzione Cantone al presidente della Commissione antimafia Morra (pentastellato, per inciso). Che la matrice vada rinvenuta nell’operosità degli amministratori padani frustrata dalla burocratizzazione indotta dal nuovo codice degli appalti, entrato in vigore nel 2016, così da liberare dagli impicci delle regole (e della concorrenza) e recuperare efficienza e velocità nella spesa? Tesi suggestiva, ma falsa, in quanto smentita dai dati.
Superata la fase fisiologica di adeguamento alle nuove norme, il mercato dei contratti pubblici appare oggi in rigogliosa ripresa – tra gennaio e aprile 2018 registra un +41,7% rispetto a un anno prima, proseguendo nel trend positivo del quadrimestre precedente. Altri dati (relativi ai lavori pubblici nei Comuni tra il 2009 e il 2013) di un recente studio della Banca d’Italia completano il quadro, mostrando che la crescita della discrezionalità nell’assegnazione degli appalti in Italia si è accompagnato a un aumento di parentela e contiguità politica delle imprese vincenti, oltre che (come prevedibile) dalla loro scarsa produttività – che si traduce in costi più alti per la collettività e cattivo impiego delle risorse pubbliche. Potremmo aggiungere altri prevedibili effetti di queste disposizioni: le professionalità dei funzionari in alcune amministrazioni faticosamente acquisite in questi anni frustrate dalla deresponsabilizzazone dell’affidamento diretto; la facilità di penetrazione nel settore delle imprese mafiose, visto l’allentamento dei controlli; il fiorire di pratiche clientelari, specie nei piccoli comuni; e naturalmente un generoso maneggio di tangenti, così come il proliferare di altri favori e opache cointeressenze. Sembrano queste le condizioni ambientali perfette affinché l’invocazione “onestà, onestà” debba tornare nuovamente a levarsi forte e chiara. Resta da capire invece chi potrà ancora intonare credibilmente – o almeno, senza vergognarsi – quello slogan.