Lo confesso: da piccolo tifavo Juve. Il 16 maggio del 1998 avevo otto anni e mio papà mi portò allo stadio di Bergamo per vedere, dal vivo, la mia prima partita di calcio. L’Atalanta giocava per la salvezza mentre i bianconeri avevano già vinto il campionato (sì, la scelta di mio padre, col senno di poi, non si rivelò molto saggia). Segnò su rigore Nicola Caccia, poi nella ripresa pareggiò, con una girata al volo da appena dentro l’area, Daniel Fonseca. Da quel momento dalla curva Nord iniziò a piovere di tutto: arance, monete, bengala. La polizia entrò in campo in tenuta antisommossa e dai pali difesi da Angelo Peruzzi sparò i lacrimogeni in direzione degli ultrà atalantini per disperderli. Io ero, letteralmente, terrorizzato. La partita venne sospesa per 13 minuti ma mio papà – questa volta più saggiamente – appena capì che aria tirava (complici le bestemmie e gli insulti che uscivano dalla bocca dei distinti signori alle nostre spalle) decise che era meglio tornare a casa.
Quella fu la mia ultima volta in uno stadio. Continuai a seguire il calcio fino alle prime avvisaglie dello scandalo Calciopoli. Dopodiché, schifato, mollai Del Piero e pallone. E lo feci non solo per il marciume degli illeciti sportivi e dei numerosi casi di calcioscommesse. Lo feci, anche, per la matrice violenta che permea la cultura (?) del tifo. Lo dico subito: chi dà del “coglione” a una persona sbaglia. Chi dà del “coglione” a un direttore di gara o a un giocatore sbaglia. E la giustificazione che sento sempre – “sì, ma tanto è allo stadio, ci sta” – non la condivido. Per me non ha senso. Perché esistono sport in cui tutti tifano per tutti (lo sci, il ciclismo, tanto per fare due esempi) o Paesi in cui sugli spalti le persone sono in grado di godersi lo spettacolo con un sorriso e, al limite, urlano “difesa, difesa” alla propria squadra e fischiano quella avversaria col solo intento di distrarla?
Il giorno successivo alla partita Inter-Napoli e alla vicenda dei buu a Kalidou Koulibaly, chiesi per scherzo a un collega, che era stato a San Siro, se si fosse unito ai cori razzisti: “No, ma a quelli contro il Napoli sì”. Ecco, sarò pure radicale, fuori moda, moralista, ma a me nemmeno i cori “contro il Napoli” piacciono. Perché, provo a indovinare, il passo da “squadra di m…” a “Vesuvio lavali col fuoco” è brevissimo. Specialmente nella testa di chi non ha gli strumenti per distinguere lo sfottò dall’insulto razzista (penso ai più giovani) o in quella di chi, nell’insulto razzista, ci sguazza con piacere: a Torino, pochi anni fa, conobbi un gruppetto di neofascisti, istruiti (doppia laurea o giù di lì), a cui del calcio non fregava nulla. Ma che si presentava allo stadio coi tirapugni. E che, quando l’Auxilium (la squadra di pallacanestro della città) guadagnò la promozione in A, fantasticavano di sostituire la tifoseria organizzata gialloblù con gruppi di ultrà juventini. Che, di nuovo, del basket non capivano nulla.
Koulibaly è solo l’ultimo caso tra i tanti (Marc Zoro, in Inter-Messina di 13 anni fa, fece scuola, ma anche Eto’o, Muntari, Boateng negli anni successivi). Il giorno dopo Inter-Napoli, tutti a strapparsi le vesti e a dire “la prossima volta ci fermiamo”, “stiamo con Ancelotti”, “siamo antirazzisti” e così via. Di soluzioni concrete e drastiche, però, nemmeno l’ombra, visto che politicamente pare non sia conveniente usare il pugno duro con tifosi violenti e società. Nelle stesse ore la nave Sea Watch, con a bordo 32 persone – persone, come Koulibaly – tra cui quattro donne, quattro minori non accompagnati e tre bambini, vagava per il Mediterraneo alla ricerca di un porto in cui attraccare (mentre scrivo, la situazione non è cambiata e, nell’indifferenza generale, pochi ne parlano). Nessuno, o quasi, si è strappato le vesti. Questo perché è più facile farlo per un ragazzo che vediamo in tv e che prende 3,5 milioni di euro all’anno e, soprattutto, perché siamo più razzisti di quanto crediamo.
E ora vi porto la mia piccola, parziale, ma significativa esperienza. Ho cercato di capire cosa succede se a cercare casa, nella moderna e accogliente Milano, è un ragazzo africano. Su suggerimento di una collega, abbiamo scelto in redazione lo youtuber Tay Vines. Tay viene dal Togo, ha 26 anni ed è in Italia da otto. Parla italiano molto bene, ha mezzo milione di follower su Facebook e quasi 300mila iscritti sul suo canale, una fidanzata, sogna di fare l’attore (comico) e quando giravamo per le strade di Milano, con la telecamera nascosta, è capitato più di una volta che venisse fermato dai giovani per un selfie. Insomma, oltre a essere perfettamente integrato nella nostra società, Tay è anche un idolo tra chi bazzica social e Internet.
Insieme abbiamo fatto un esperimento: a turno, abbiamo telefonato ai privati che offrivano la propria abitazione in affitto. Poi, sempre a turno, ci siamo rivolti alle agenzie immobiliari. Ebbene, dove lui riceveva dei “no, la casa è già occupata”, io trovavo le porte spalancate: “Quando fissiamo l’appuntamento?”. Pure lui, che ho scoperto essere un ineffabile ottimista, ha dovuto ricredersi. Dopo i primi “no” nelle agenzie, uscendo mi diceva: “Magari non aveva davvero nessuna casa da proporre”. Verso la fine dell’esperimento, esasperato, mi confidava: “Certo che qui mi guardavano proprio male! Ho capito da subito che un alloggio non me lo avrebbero mai dato”. E così è stato.
La cosa che però mi ha sorpreso, nel corso del test, sono stati gli atteggiamenti discriminatori – razzisti – nei confronti dei meridionali. Un signore dal buon eloquio, testualmente: “C’è una ragazza napoletana che viene a vedere la casa con la mamma. Sembrano affidabili, ma sa come sono questi napoletani… preferisco dare la casa a lei”. Una signora, invece, mi ha chiesto via Whatsapp di quale regione fossi. Una domanda che non denota curiosità disinteressata (a differenza di “da quale città vieni?”, che è un interrogativo più preciso) ma che data la sua genericità, secondo me, sottende un grande pregiudizio: se vieni dalle regioni che io reputo buone, ok; se vieni da quelle cattive, invece, non vai più bene.
Siamo diventati più razzisti? Lo siamo sempre stati? Io, a queste domande, non so rispondere. Ciò che vedo è una società che vive, da anni, un profondo scollamento tra chi sta bene (pochi) e chi non sta bene come un tempo (la maggior parte). E la rabbia di questi ultimi, spesso, trova una risposta, catartica, nello scontro. Lo scontro dei penultimi contro gli ultimi.