Cinema

Sergio Leone, 90 anni fa nasceva il regista a cui bastarono sette film per raccontare tutto

Il cinema come intrattenimento, l'infanzia, le pistole, la politica, il realismo crudo e violento. Tutto annaffiato da una buona dose d'ironia. Un viaggio tra spaghetti western e ricordi, sulle orme di un maestro senza tempo

di Marco Colombo
Sergio Leone, 90 anni fa nasceva il regista a cui bastarono sette film per raccontare tutto

Sono bastati sette film a Sergio Leone per lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema. Sette film per attraversare i generi, distruggerli e reinterpretarli. Sette film per piegare la critica al racconto popolare. Sette film per rapire il nostro sguardo e raccontarci tutto. Il 3 gennaio 1929 nasceva a Roma Sergio Leone. E noi, oggi, lo ricordiamo.

“C’è mancato poco che non nascessi in un cinema” – Figlio dell’attrice Bice Valcareggi e del regista Vincenzo Leone, in arte Roberto Roberti, il piccolo Sergio viene presto a contatto con il mondo frequentato dai genitori. A portarlo per la prima volta su un set è anzi proprio il padre, che nel 1941 gli assegna una piccola parte nel film La bocca sulla strada. Nonostante questa e altre comparsate – figura persino fra i seminaristi tedeschi incontrati da Antonio e dal piccolo Bruno in Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica -, tuttavia, Leone capisce di non essere tagliato per la recitazione, sviluppando invece una predilezione per la macchina da presa. Comincia così a formarsi come aiuto regista, collabora a colossal americani del calibro di Quo vadis? (1951) o Ben-Hur (1959) e attende una chance da primo violino. Opportunità che presto arriva.

Sandali e spade – Messosi in luce per aver portato a termine le riprese de Gli ultimi giorni di Pompei (1959) sostituendo l’ammalato Mario Bonnard, nel 1961 Leone ottiene la direzione de Il colosso di Rodi. Ascrivibile al genere peplum – film di impianto mitologico e biblico – la pellicola non sembra adattarsi per temi e ambientazioni all’immagine che abbiamo oggi del cineasta romano. Eppure, sebbene ancora acerbo, l’esordio lascia già intravedere quelle sfumature che andranno poi a comporne lo sguardo. Il cinema inteso (anche) come intrattenimento, una marcata vicinanza agli oppressi, la contaminazione politica e un realismo crudo e violento sono infatti elementi che torneranno nella filmografia del nostro autore. Specie se ad annaffiarli, come in questo caso, è un’abbondante dose d’ironia. Il film esce in sala, il pubblico apprezza e il botteghino seppellisce le polemiche. Subito dopo aver battuto il primo ciak, infatti, Leone aveva dovuto fare fronte all’ammutinamento del suo protagonista, John Derek. Volto noto dei peplum, Derek semplicemente non riteneva all’altezza del compito l’inesperto Sergio, pretendendo invece di essere lui stesso a dirigere il lungometraggio. Furibondo per le bizze della propria star, Leone – supportato dall’intera troupe e dal resto del cast – ne aveva dunque chiesto la rimozione, ottenendola e scritturando al suo posto “il Cary Grant dei poveri”: Rory Calhoun. Un’altra curiosità è legata poi al fatto che Il colosso di Rodi rimane l’unica opera leoniana non musicata da Ennio Morricone, storico compositore di Leone, di cui fu anche compagno di classe alle elementari.

La trilogia del dollaro – Per un pungo di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1968). Tre film leggendari, tre pellicole che defibrillano un genere ormai al collasso rivisitandolo con una ricetta del tutto nuova. Pur mal digerita dallo stesso Leone, l’etichetta “spaghetti western” rende perfettamente l’idea di una rivoluzione in salsa italiana. Nutrito dalla cultura delle narrazioni epiche, Leone intende i suoi pistoleri come novelli eroi omerici. Interessato al mito e alla sua costruzione, avvia dunque un’operazione che non arricchisce semplicemente il canone, ma lo demolisce per rifondarlo. Nella Trilogia del dollaro i personaggi sono maschere in cui bene e male convivono nello stesso respiro. Gli orizzonti si estendono verso il confine con il Messico, dove la violenza si fa più barbara. I volti e i vestiti si colorano di polvere e tabacco e alla faccia liscia di John Wayne si sostituisce il viso barbuto di un Clint Eastwood monocorde e sino ad allora semi-sconosciuto. Protagonista senza nome di tutte e tre le pellicole, “il biondo” è addobbato con un sarape e un cappello da damerino. La bocca perennemente occupata da un sigaro. Campi lunghissimi si alternano a primissimi piani che rimbalzano dagli occhi dei fuorilegge alle fondine delle loro pistole. Le note di Morricone acquistano un valore diegetico, mentre l’ironia è enfatizzata da battute che diventano aforismi. Il risultato è qualcosa di mai visto prima. Tanto da spingere Leone a firmare con uno pseudonimo il primo capitolo della trilogia: Bob Robertson, un tributo al nome d’arte del padre, autore del primo western italiano, La vampira indiana (1913). La conversione in inglese del soprannome paterno è poi dovuta al timore che un film di cowboy diretto da un romano non seduca il pubblico. Il successo di Per un pungo di dollari è però tale da rivelare al mondo l’identità di Sergio Leone e da risvegliare le ire di Akira Kurosawa, che accusa il cineasta di Trastevere di aver plagiato il suo La sfida del samurai (1961). Kurosawa vince la causa e a Leone non resta che concedere una percentuale dei diritti.

La trilogia del tempo – Con C’era una volta il West (1968) Leone torna alle origini del genere e alla lezione del maestro John Ford. A guidarlo sono il desiderio e il dolore di sotterrare per sempre cappelli e pistole. Per farlo compone una tra le più riuscite sinfonie visive della storia del cinema. La celebre scena d’apertura bandisce infatti la parola dallo schermo, affidando all’immagine e ai rumori ambientali il compito di dialogare con lo spettatore. Leone pare dirigere un’orchestra fatta di gocce, vento e ronzii. Uno spartito che anticipa una dilatazione temporale inedita, che inghiotte l’intera pellicola. L’opera si tinge così di malinconia per un mondo destinato all’estinzione e, in qualche modo, introduce la complessità politica di Giù la testa (1971). “Quando ero giovane credevo in tre cose. Il marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”, con queste premesse filosofiche il cineasta romano approccia il lavoro che più di tutti testimonia la sua aderenza alla lotta di classe e alla causa degli oppressi. Ambientato durante la Revolucion mexicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, il lungometraggio si snoda attorno all’incontro fra l’irlandese John Mallory e il peone Juan Miranda. Idealista e invaghito della rivoluzione il primo, disilluso e interessato al profitto il secondo, i due instaurano un dialogo fra maschere sconfitte. Di fatto, una lucida analisi della società contemporanea filtrata attraverso la lente del genere.

Uno straordinario racconto crepuscolare che Sergio Leone tenta, tuttavia, di affidare a Sam Peckinpah, desiderando invece concentrarsi su un’altro progetto: C’era una volta in America. Cullato per oltre dieci anni, questo il film rappresenta per Leone il coronamento della propria poetica. Sublimando l’anonima biografia criminale di Harry Grey (The Hoods), il regista italiano compone un affresco di vita e di morte, una ballata americana in cui confluiscono però i ricordi del Sergio bambino e della gioventù spesa lungo la scalinata di Viale Glorioso. La memoria, il tempo e l’infanzia. Tre ossessioni leoniane ricorrenti nell’intero arco della sua filmografia, vengono qui declinate in un racconto universale. E ancora una volta torna il mito, con Noodles e la malavita newyorkese a sostituirsi a Omero e ai duelli a ritmo di carillon. Un film-romanzo, più di 40 anni di sogni, amicizie e tradimenti sezionati lungo tre piani temporali distinti, che si alternano al ritmo di madeleine proustiane. O, almeno, che avrebbero dovuto farlo. Il 17 febbraio 1984, infatti, in occasione dell’anteprima mondiale del film, i produttori decidono di presentare una versione alternativa. I 229 minuti approvati dal regista vengono ridotti a 139, mentre il meccanismo a flashback viene completamente smontato in favore di una narrazione cronologica degli eventi. Il risultato è catastrofico, la pellicola è subissata di critiche. Per Sergio Leone il colpo è durissimo. Neppure avvisato di quelle modifiche, ne esce distrutto. L’entusiasmo che lo accompagnava ogni volta che parlava di C’era una volta in America lascia spazio all’amarezza. Una nuova edizione rimediò, ma non sono pochi ancora oggi a scommettere che fu quello il colpo che mise in ginocchio il cuore del regista. Quello stesso cuore che lo tradì il 30 aprile 1989, lasciandoci con sette film e un mare di ricordi.

Twitter: @Ocram_Palomo

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