Invitare un parlamentare a scrivere tre buoni propositi per l’anno nuovo è un po’ come iniziare a leggere la lettera dei propri figlioletti a Babbo Natale dove promesse e regali s’intrecciano nel più ingenuo inganno possibile. Solo che i politici non hanno la stessa ingenuità, ovviamente.

Facciamo così: nessuna promessa, nessun buon proposito. Proviamo invece a riflettere sulla sfida più alta che una classe dirigente che si propone come nuova – nel predicato politico più che nella carta d’identità – si è impegnata a giocare: ribaltare la messa a fuoco del proprio agire, pensare il sociale prima di altro, ripristinare il senso della legalità e dei diritti. La dignità prima del profitto. La difesa dello Stato, della cosa pubblica, che prevale sul suo opposto: cioè svenderlo, denudarlo.

Come vedete non faccio alcun elenco di obiettivi da raggiungere, di target da raggiungere o numeri da azzeccare perché ciò sembra essere diventato il solo obiettivo: diciamo che lo mettiamo agli atti cum grano salis e non pensando che la politica si esaurisca in questo passaggio contabile. In questi giorni abbiamo assistito a un dibattito – non privo di verità, sia chiaro – sulla centralità del Parlamento aggredita dall’esecutivo: nulla di nuovo sotto il sole, nel senso che (purtroppo) sta dentro l’architettura dell’ultimo ventennio dove il leaderismo è diventato progressivamente un presidenzialismo senza equilibrio, una mostruosa democrazia bonapartista.

Non è tuttavia con un tagliando o una convergenza che correggiamo tale disallineamento: la centralità del Parlamento dovrebbe essere la centralità di chi “pensa” la politica, di chi allunga l’orizzonte sociale e culturale. Torno così alla sfida di cui sopra. Ribaltare il senso della politica significa costringere l’esecutivo e la sua forza a uscire dal pensare statisticamente, dal pensare per algoritmi o per bilanci. In poche parole significa presentare il conto che questa lunga stagione ha generato: diseguaglianze.

Quando l’esecutivo non pensa politicamente, significa che qualcun altro sta dettando la sua legge. Poiché il legislativo è stato neutralizzato, la linfa non può che arrivare dalla muscolarità finanziaria, la cui chimica non prevede la densità sociale, anzi si avvantaggia del suo contrario, cioè lo scollamento sociale. La forza dei parlamenti non è produrre leggi, ma è pensare la società nella sua evoluzione, e quindi prevederla con leggi di riforma.

Ecco la vera sfida che deve maturare chi si propone di essere forza del cambiamento e forza unitaria, forza compiutamente nazionale: sforzarsi di produrre quell’energia che consente a tutti di sentirsi parte, a tutti di essere messi nella condizione di essere pienamente cittadini, coi propri diritti e doveri. Nessuna modernità mi convincerà mai quando la sua forza sta nella disintegrazione sociale. Ribaltare questo paradigma è una sfida faticosa, il fatto però di imporsela è già un ottimo proposito.

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