“Alla società non resta che il silenzio per esprimere la propria esistenza e il rifiuto della situazione attuale. Il silenzio, in questo paese, è una presa di posizione, ma non può durare per sempre. Una società viva e vitale non può fare a meno di creare modi nuovi di esprimersi, prendere posizioni pubbliche e agire” scriveva nel 2002 Riyad al-Turk, attivista politico e comunista, chiedendosi se l’esperienza della ‘Primavera di Damasco‘ fosse finita. Nel 2000, alla morte di Hafez al- Asad, e al successivo insediamento del figlio, Bashar, un gruppo di intellettuali – di tutte le confessioni e etnie presenti in Siria – avanzarono delle istanze al neo presidente chiedendo l’apertura, in senso democratico, del paese. Ma l’esperienza della Primavera di Damasco, fra il 2000 e il 2001, insieme a quella del manifesto dei 99 del 2005, in cui un gruppo di intellettuali e oppositori presentarono un manifesto programmatico ancora una volta inteso all’apertura del paese al sistema democratico, finì con arresti e torture ai danni degli oppositori. Una consuetudine, quella dell’azione repressiva, per il regime di Bashar al-Asad che aveva prodotto, almeno fino al 2011, un “regno del silenzio” legittimato – nonostante i rapporti delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani che evidenziavano la continua violazione dei più basilari diritti dell’uomo – l’omertà della comunità internazionale.

Testimone di quegli anni e degli eventi successivi allo scoppio della rivoluzione siriana è l’autore di questo libricino. Abdullah Alhallak, intellettuale, membro del partito Comunista siriano (ufficio politico), organizzazione politica clandestina nata da una scissione con il partito comunista leale al governo di Damasco, viene arrestato una prima volta il 2 aprile del 2006. Una pattuglia del servizio segreto entra nel negozio di famiglia. Alhallak è immobilizzato, gli viene messa una benda sugli occhi e viene portato via. Rinchiuso cinque giorni in cella d’isolamento, viene torturato e insultato ripetutamente. La motivazione? Aver partecipato un mese prima, nel marzo 2006, a “un sit-in indetto dall’opposizione siriana davanti al Palazzo di giustizia a Damasco per chiedere la liberazione dei detenuti politici, mettere fine allo stato di emergenza e alla legge marziale che duravano da più di quarant’anni e far sì che il paese ritornasse a una sana vita democratica”.

L’esperienza carceraria del 2006 e quella del maggio 2011, appena scoppiata la sollevazione popolare e pacifica in Siria, lo segnano definitivamente. Dopo poco tempo dall’ultimo arresto, Alhallak ripara in Libano dove continua la sua attività di giornalista per diverse testate arabe e dà alle stampe alcuni libri in arabo. La scrittura, ci dice l’autore, diventa l’unico mezzo politico e di resistenza all’imbarbarimento. Ma, forse, è anche uno strumento per cercare una giustizia che sembra essere scomparsa in Siria.

La parola, il racconto, diventa anche una medicina contro l’esilio che separa l’autore dalla sua città natale, Salamiya. Perché, come dice lui stesso, “questa è la mia città. Sono nato e cresciuto in una famiglia ismailita, perciò sento di appartenere socialmente a questa comunità anche se non sono credente. Mio padre e mia madre discendono entrambi da famiglie ismailite e mio nonno era un importante religioso della città”.

Proprio questa appartenenza, non più di fede perché il giornalista si dichiara ateo, a una minoranza religiosa aggiunge un elemento arricchente e del tutto particolare in questo volume, nonostante l’ampia bibliografia sulla Siria che è presente nelle librerie. Il motivo è che la narrazione che troverete in queste pagine scardina la vulgata che vede in Bashar al Asad il leader laico e protettore delle minoranze. Al contrario, ci viene raccontato come sia stato il regime siriano a disgregare la società su base confessionale e a aizzare strumentalmente il focolare jihadista.

Oggi, a fronte di un paese demograficamente cambiato, in cui la maggioranza sunnita è diventata una minoranza e le minoranze maggioranze; dopo sette anni di guerra che hanno prodotto oltre mezzo milione di morti e dieci milioni fra sfollati interni e una marea di profughi esterni che hanno rinunciato alla possibilità del ritorno, l’unico atto che rimane è quello di un ascolto silenzioso della voce dei siriani. Ad autori come quello di questo libro, oggi in esilio a Milano, con la certezza dell’impossibilità di rivedere la propria casa e la terra natia, va riconosciuto il merito di continuare ad apporre alla barbarie una resistenza civile. Incarnano la figura dell’intellettuale impegnato che è disposto a pagare, anche con la vita, in nome della difesa di cause che sembrano perse. Lo fanno con la parola, innalzandola a valore assoluto.

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