Il primo ministro è accusato di frode, corruzione e fondi neri. Il procuratore generale Avichai Mendelblit deciderà se rinviarlo a giudizio entro il mese prossimo, in vista delle elezioni di 9 aprile. Lui contrattacca e resta fortissimo: dalla sua la crescita economica e i successi in politica estera. Soprattutto, nessuno a destra vuole sfidarlo
Il colpo di scena è arrivato alla fine di un tormentato week end. Il procuratore generale Avichai Mendelblit deciderà se accusare il primo ministro Benjamin Netanyahu entro il mese prossimo, in vista delle elezioni di aprile, secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz nell’edizione di domenica. Una fonte nell’ufficio del procuratore generale ha detto al giornale che Mandelblit dovrebbe annunciare la sua decisione a febbraio, un mese prima delle elezioni anticipate previste per il 9 aprile, smentendo ogni previsione. Eventi simili segnerebbero la fine della carriera politica di chiunque, ma non per Benjamin Netanyahu.
La sua coalizione di governo ridotta al minimo, ministri ed ex ministri in guerra tra loro, partiti alleati che si sciolgono, e due diverse accuse – per frode, corruzione e fondi neri – che saranno formalizzate tra un mese e si andrà a processo. Un terzo caso è all’esame della Procura. Eppure quando Israele andrà alle elezioni in aprile sarà ancora lui il candidato con maggiori possibilità di formare il prossimo governo. E’ sulla buona strada per vincere una quinta elezione e superare David Ben Gurion – il padre fondatore di Israele – come leader più longevo del Paese.
Benjamin Netanyahu è più che determinato ad essere rieletto, per lui è una questione di vita o di morte. Giusto sabato sera aveva postato su Twitter un video dove esortava il Procuratore generale Mendelblit a non tenere un’udienza sui casi di corruzione pendenti contro di lui se il processo non può essere completato prima delle elezioni del 9 aprile. Nel video, il primo ministro ha paragonato i procedimenti giudiziari contro di lui al taglio del braccio di un uomo “soltanto” accusato di furto, non condannato.
Nella narrativa di Netanyahu le accuse contro di lui sono portate da coloro che cercano di delegittimarlo. “In queste elezioni”, ha spiegato l’altro giorno ai capi dei consigli locali della Cisgiordania, “lo sforzo della sinistra di effettuare un cambiamento di governo mobilitando i media e altre strutture”, accusando indirettamente polizia e apparati investigativi del ministero della Giustizia di essere prevenuti e ostili nei suoi confronti, è parte di quel complotto per rovesciarlo che a suo dire avrebbe coinvolto anche il presidente Reuven Rivlin e il suo ex alleato e amico Gideon Saar.
Accuse a cui Mendelblit ha implicitamente risposto denunciando “affermazioni infondate di presunti comportamenti di parte delle autorità di polizia che vogliono minare la fiducia negli organismi dello Stato”. Il Procuratore, che parlava a margine di una conferenza legale, ha detto che non c’è “chiaramente” alcun obbligo per Benjamin Netanyahu di dimettersi mentre è in corso un processo. E certamente Netanyahu non ha nessuna intenzione di farlo, specie se la legge lo consente.
I sondaggi indicano nel Likud guidato da Netanyahu ancora il partito di maggioranza relativa, in grado di trovare un accordo con i partiti religiosi e della destra; l’opposizione non è al momento pervenuta, una selva di partiti e partitini, con il Labour in caduta libera.
L’apparente inevitabilità del regno di Netanyahu dovrebbe sorprendere. Sostituire un premier in Israele non è difficile. E’ sufficiente un voto della Knesset. Nell’ultimo decennio, poi, i tribunali israeliani non hanno fatto sconti a nessuno e hanno mandato in prigione sia un primo ministro (Ehud Olmert, per corruzione) che un capo dello Stato (Moshe Katzav, per violenza sessuale). E allora perché per Bibi Netanyahu è diverso?
Perché nell’ultimo decennio ha realizzato ciò che non sembrava possibile: una crescita economica sostenuta, un rating internazionale valutato AA, rapporti fiorenti in tutto il mondo, nuove alleanze con Paesi arabi. Nello stesso periodo non è scoppiata una terza Intifada, e negli ultimi quattro anni è stato combattuto solo un “breve” conflitto a Gaza nel 2014. La guerra delle ombre con Siria e Iran non è finita. Il risultato più incredibile è che Bibi sia riuscito a fare tutto questo senza fare nessuna concessione ai palestinesi. E questo per la Destra lo rende insostituibile.
Ha resistito 8 anni alle pressioni di Obama, abbastanza a lungo per far uscire la questione dei “due Stati” dall’agenda globale. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e i leader arabi e Europa preoccupati da altro, la pressione politica è ormai quasi scomparsa. Non importa quanto sia profonda la frustrazione nei confronti di Netanyahu, nessuna figura della destra vuole apertamente sfidare il leader nazionalista di maggior successo nella Storia di Israele.
Nessuno è disposto a correre il rischio di essere accusato di aprire la strada al ritorno della Sinistra disfattista, con le sue pericolose idee sulla restituzione delle terre e la “soluzione dei due Stati”. I possibili aspiranti al ruolo di primo ministro nel Likud come negli altri partiti satelliti della Destra dicono tutti di sentirsi in corsa ma per il “dopo Netanyahu”, non prima. Nessuno vuole ingaggiare la sfida. Questa ascesa politica e ideologica conferisce a Netanyahu un’immunità politica temporanea. Che però non diventa necessariamente anche un’immunità legale.