Che cos’è una legge? E perché bisogna obbedirle? Alla prima domanda verrebbe fatto di rispondere che una legge è una legge, ben prima che “la legge è la legge”. Alla seconda domanda, di conseguenza, si risponderà che occorre obbedire a una legge perché “una legge è una legge”. Insomma, una tautologia. Alla domanda si risponde con un avvitamento circolare.

Michel de Montaigne descriveva questo come il fondamento mistico della legge: le leggi vengono rispettate non perché sono giuste ma perché sono leggi, è il loro fondement mystique. Jacques Derrida, commentando un altro passaggio di Montaigne in cui l’autore dei Saggi menziona la fiction légitime su cui si fonda l’obbedienza, chiosa che l’autorità della legge si fonda solo su se stessa, ovvero si costituisce di una violenza senza fondamento.

Sarebbe lungo e vertiginoso addentrarsi in questo argomento, che scomoda l’intero pensiero occidentale da Antigone ai giorni nostri. Il tema del fondamento dell’obbedienza, e per converso del diritto di disobbedire, ha prodotto più pagine delle foglie a Vallombrosa. Ciò che qui si può dire, tuttavia, è che a mio avviso fino a un certo punto la critica che individua nella legge una tautologia ha colto nel segno, poiché la legge per essere obbedita aveva bisogno di attingere non a un contenuto giuridico – che tutt’al più poteva essere quello della pura forza (si obbedisce perché altrimenti c’è un sovrano che punisce) – ma a qualcosa che venisse “da fuori”.

Questo lo sapeva quel pensiero che riteneva che nessun uomo potesse obbedire a un altro uomo senza un supplemento di senso, che nello specifico doveva venire dalla religione. Ma quel legame era una fictio: fingunt simul creduntque, credono a ciò che loro stessi hanno prima creato: è quanto dice Tacito a proposito della religione ed è quanto viene ripreso agli albori della modernità da Hobbes. Tuttavia la fictio non vuol dire “inganno”, non è sinonimo di “imbroglio”, bensì di un dispositivo giuridico che tra origine dal diritto romano e che non serve a rendere vero il verosimile, ma a rendere vero il falso.

Lo Stato liberale, come più di recente ha ricordato un filosofo e giurista tedesco come Böckenförde, si fonda su presupposti che da solo esso non può garantire. Tuttavia, e per non addentrarci ulteriormente in questa selva di questioni, anche oggi si ritiene che il diritto abbia bisogno di un supplemento che è dato da una sorta di “contenuto morale“. Ma il contenuto morale è rischioso, oltre che a mio avviso in contraddizione con il tentativo della modernità politica e giuridica di liberare lo Stato dal supplemento deontico rappresentato dalla religione.

Ma allora con cosa riempiamo la vuotezza di quella richiesta di obbedienza il cui nucleo è per l’appunto vuoto, ovvero auto-portante? Ai tempi di Montaigne, il suo amico Étienne de La Boétie aveva fondato la possibilità di far crollare il potere sottraendogli l’obbedienza. Ma sulla base di cosa oggi si può disobbedire? Allora partiamo dal dire una cosa: gli Stati liberal-democratici di diritto, che si sono consolidati soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, erano in qualche misura “esentati” dal dover dimostrare che il diritto da essi prodotto aveva un fondamento supplementare. O meglio, questo fondamento supplementare non era così “esterno”, ma era interno al diritto stesso.

I principi che avrebbero dovuto evitare il ripetersi della barbarie erano stati implementati nelle costituzioni, essi erano stati sottratti alla discussione sulla morale per venire costituzionalizzati. Il potere costituente, investito dell’autorità che gli derivava dalla vittoria della guerra e dalla sconfitta del nazifascismo, aveva incastonato quei principi dentro le costituzioni repubblicane. Dunque “perché obbedire?”. Non più perché “la legge è legge”, ma perché quella legge era costruita su solide fondamenta e il problema del supplemento non era più attuale.

Così, il potere costituente si era, secondo alcuni, “estinto” per sempre proprio con la costituzionalizzazione di quei principi. Rimane però una sporgenza di quel potere, una sporgenza che richiama l’antico diritto alla disobbedienza che ai tempi di Montaigne e di La Boétie animava il pensiero ugonotto e monarcomaco: quella sporgenza si è cristallizzata nel diritto di sottoporre le leggi al vaglio di costituzionalità. Quella “disobbedienza”, lungi dall’essere un’”offesa” (chi la percepisce così è un antidemocratico) al potere, è l’attivazione di quell’antico potere dormiente.

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