In questi giorni le cronache riportano ancora una volta casi di intervento della giustizia minorile in storie familiari complesse e dolorose. Giudizi su capacità genitoriali, valutazioni su condizioni di minori, provvedimenti che vengono messi in discussione per la loro apparente crudeltà, giustificata dall’intento di mettere al centro delle decisioni il bambino, quale figura più vulnerabile e titolare di un diritto al benessere che va oltre il momento, proiettato nel suo futuro.
L’approccio attuale è articolato e affidato – almeno in teoria – alla competenza specifica di servizi sociali e giudici, ma si riferisce a un sistema molto datato, che affonda le radici culturali nel Ventennio fascista, dove lo Stato avocava a sé il diritto a educare e formare. Con qualche eredità controversa. Ha più di 60 anni la legge che istituisce l’affido di minorenni ai servizi sociali. In realtà si tratta di una modifica della prima norma, datata addirittura 1934.
Ma più che di una legge, si tratta in realtà di un’attribuzione di potere. Infatti non è previsto né un vero elenco dei motivi che possano portare alla sottrazione dei minori alla responsabilità genitoriale, né tantomeno la possibile durata. È considerato un provvedimento temporaneo e ciò significa che non è appellabile, quindi non è suscettibile di ricorso mediante un tribunale, ma contemporaneamente può durare anche anni: perfino sino alla maggior età del soggetto preso in carico. Formalmente è una sospensione della potestà dei genitori, che però mantiene in vigore i doveri economici da parte di questi.
In pratica i minori diventano ”figli dello Stato”. Una condizione abbastanza inquietante, se non si considera che in origine era prevista come correttivo delle devianze giovanili. In seguito è stata fatta diventare un mezzo per sopperire a carenze educative gravi, riassumibili nel cosiddetto “stato di abbandono”, o come mezzo per mettere al riparo figli di coppie separate dai conflitti tra adulti.
Ma quanti sono i minori “dello Stato”? Un numero esatto non si conosce, perché non vi è alcun obbligo per le istituzioni locali di stilare un elenco e soprattutto di comunicarlo alle istituzioni nazionali. Un dato del 2012 vuole circa 14mila minori nelle case famiglia, ma anche in questo caso non vi è distinzione tra coloro che sono stati tolti ai genitori e coloro che vengono ospitati, ad esempio, con la madre a seguito di casi di violenza domestica.
C’è poi un fenomeno ibrido, che nasce dalla distinzione tecnica – spesso poco conosciuta anche da chi fa informazione – tra collocamento e affido. Accade che il minore sia collocato presso i genitori, ma affidato ai servizi sociali. L’intento è quello di non privare i figli di ambiente e affetti, durante un percorso di sostegno ai genitori che vengono ritenuti temporaneamente non in grado di svolgere del tutto i loro compiti.
Purtroppo spesso il meccanismo produce – invece – conflitti e delegittimazione dei genitori agli occhi dei figli. In pratica il genitore non può decidere nulla: dalle scelte scolastiche al permesso per uscire con gli amici. Non di rado si crea una condizione per la quale il minore si appella all’assistente sociale per ottenere quel che sa non otterrebbe dalla madre o dal padre. Basta denunciare un stato di disagio e scatta la sostituzione del ruolo genitoriale.
Chi scrive tempo fa raccolse il racconto di una madre collocataria, ma non affidataria a causa del conflitto con l’ex marito: le figlie minorenni ricorrevano all’assistente sociale per potersi fare piercing, tatuaggi, poter uscire la sera: la madre poteva solo vedersi “passare sulla testa” le scelte concordate tra figlie e assistente sociale. La domanda è: se il provvedimento fosse stato davvero temporaneo, cosa avrebbe dovuto fare la madre per essere considerata adeguata dalle figlie? Replicare all’infinito le scelte precedenti dell’assistente sociale? Avrebbe dovuto rimanere perennemente sotto ricatto? Il problema non si pose, perché – come spesso accade – le due minorenni rimasero “figlie dello Stato” fino ai 18 anni. Accade praticamente sempre.
Fine del problema? In realtà, no. Semplicemente fine dell’opera di delegittimazione totale del genitore, visto che da quel momento in poi la maggior età consente l’autodeterminazione, riconosciuta dalla legge. Con – però – un dettaglio non da poco: la stessa legge impone la ritrovata responsabilità genitoriale fino all’indipendenza economica del figlio. In pratica il genitore ritrova tutti i doveri, ma non più l’autorità. Del resto anche durante la condizione di “figlio dello Stato” del minore, il genitore aveva in capo a sé tutti gli obblighi economici, ma era privato di ogni vantaggio, come gli assegni famigliari o qualsiasi altro sgravio fiscale.
E se lo Stato si limitasse a controlli e verifiche e magari orientasse il suo intervento al sostegno? Insomma, se lo Stato rinunciasse ad avere “figli” e pensasse a coltivare genitori? Forse si seguirebbe un concetto più moderno e liberale che farebbe bene a tutti.