Anno nuovo, vecchie amicizie. Le incertezze in cui verte il traballante accordo di Singapore hanno spinto Kim Jong-un nuovamente tra le braccia della Cina, che lo scorso anno ha ospitato il primo debutto internazionale del giovane leader. Secondo la Korea Central Television, Kim sarebbe giunto a Pechino questa mattina a bordo del consueto treno blindato verde a strisce gialle insieme alla moglie Ri Sol Ju e altri alti funzionari, tra cui il ministro degli Affari Esteri Ri Yong Ho e Kim Yong Chol, capo dell’intelligence nordcoreana nonché vicepresidente del comitato centrale del Partito dei Lavoratori. La trasferta – la quarta in meno di un anno oltre la Grande Muraglia – terminerà giovedì e coincide con il 35esimo compleanno del leader (8 gennaio).

Sebbene i media cinesi e nordcoreani abbiano confermato un invito del presidente Xi Jinping, il tempismo gioca a vantaggio del giovane statista. L’agenda 2019 di Kim è quantomai fitta. Proprio in queste ore Pyongyang e Washington discutono la location per un secondo meeting tra Kim e Trump (la sfida è tra Hanoi, Bangkok e le Hawaii), mentre da mesi si parla di una possibile visita a Seul, la prima da parte di un leader nordcoreano. Non è un caso che l’arrivo di Kim in Cina avvenga sempre alla vigilia di importanti sviluppi. Avere l’appoggio dell’alleato cinese è più che mai necessario in questo momento di ridefinizione della strategia estera nordcoreana. Nel suo discorso per il nuovo anno, il leader ha avvertito che la mancanza di reciprocità da parte di Washington nel processo di denuclearizzazione spingerà la Corea del Nord verso “una strada alternativa“, forse più vicina a Pechino.

L’ascesa al potere di Kim ha coinciso con un raffreddamento delle relazioni sino-coreane a causa delle ripetute provocazioni nucleari e missilistiche degli ultimi anni. Ma Pechino non ha mai fatto mistero di appoggiare un allentamento delle sanzioni per agevolare il dialogo con il Nord. È una lealtà che alla Cina di certo torna comoda. Dopo le iniziali ambiguità, lo scorso anno Pyongyang ha fornito una propria interpretazione ufficiale del concetto di denuclearizzazione contenuto nell’accordo di Singapore, dove la rimozione delle armi atomiche presuppone un’equa reciprocità. Tradotto: lo smantellamento dell’arsenale nordcoreano implica una rinuncia dell’ombrello nucleare dispiegato da Washington a protezione di Corea del Sud e Giappone. Uno scenario che la controparte cinese, irritata dall’attivismo americano nel Pacifico, osserva da lontano con la bava alla bocca.

“Kim vuole ricordare all’amministrazione Trump che ha alternative diplomatiche ed economiche oltre a quelle offerte da Washington e Seul”, spiega alla Reuters Harry Kazianis, esperto del think tank americano Centre for the National Interest. L’itinerario del soggiorno cinese di Kim è ancora segreto, tuttavia è probabile includa un confronto diretto con Xi Jinping su questioni quali il futuro economico del Regno Eremita e un possibile accordo di pace necessario a mettere formalmente fine alla Guerra di Corea, terminata nel 1953 con la firma di un armistizio.

In un’intervista rilasciata lunedì a CNBC, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha lodato Pechino per il suo aiuto nella risoluzione della crisi coreana, definendolo “un buon partner nella riduzione dei rischi per il mondo derivanti dalla capacità nucleare della Corea del Nord. Mi aspetto che continueranno a esserlo.” Proprio in queste ore, nella capitale cinese una delegazione statunitense è impegnata in colloqui viceministeriali per raggiungere un accordo commerciale definitivo prima del 1 marzo. Un fallimento implicherebbe un aumento dei dazi americani sulle importazioni cinesi, in un momento in cui il rallentamento della seconda economia mondiale comincia a intaccare il mercato del lavoro. “Il tempismo non potrebbe essere migliore” commenta Kazianis, “con i funzionari cinesi e statunitensi riuniti per discutere su come porre fine alla crescente guerra commerciale tra le due superpotenze, Pechino ha chiaramente una carta nordcoreana da giocare se lo ritiene opportuno”. D’altronde, Trump non ha mai negato di aver calibrato le proprie ritorsioni tariffarie a seconda dell’impegno dimostrato da Pechino nella penisola. Ma, con il furto di tecnologia in cima all’agenda, l’alleanza con il Nord difficilmente basterà ad assicurare una vittoria cinese.

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