di Andrea Patroni Griffi

Nel Mezzogiorno manca oggi una banca che promuova lo sviluppo del territorio e, come se non bastasse, i crediti oggi recuperati dal vecchio Banco di Napoli non vengono reinvestiti al Sud, ma sono impiegati per salvare le banche del Centro-Nord.

L’intervento sul Banco di Napoli e la Fondazione

L’accesso al credito bancario è un fondamentale fattore per lo sviluppo di un territorio, tanto più se lo stesso sconta – per ragioni storiche, economiche e sociali sedimentate nel tempo – un ritardo nel proprio sviluppo (vedi lo studio di Daniele e Malanima):

A Napoli e nel Mezzogiorno vi era, come noto, un antichissimo istituto bancario (sulla cui storia vedi De Marco), che operava di fatto come quella tanto anelata Banca del Mezzogiorno (su cui vedi Sergio Marotta), raccogliendo con una rete capillare di sportelli – presenti in tutt’Italia, ma soprattutto in Campania e nel Sud – risparmi che erano alla base di erogazioni di crediti alle famiglie e imprese operanti nel territorio. Un risparmio raccolto e investito al Sud in una banca profondamente radicata in un territorio, che ne esprimeva i vertici e ne raccoglieva i principali interventi.

Non è questa la sede per ripercorrere, in modo analitico, le ragioni che segnarono il destino del Banco di Napoli, anche se invero, da subito, vi fu chi vide i pericoli di una logica sostanzialmente espropriativa della principale banca del Sud.

Gustavo Minervini, da presidente della fondazione Banco di Napoli – detentrice del pacchetto di controllo del Banco stesso – si batté affinché fosse tutelata la fondazione e gli altri azionisti e determinato il valore di avviamento. Come noto, invece, nel 1996 si procedette ad azzerare il capitale sociale e a ricapitalizzare il Banco, senza riconoscere alcun corrispettivo relativo al diritto di opzione dei vecchi soci, tra cui la fondazione Banco di Napoli.

Un azzeramento del capitale sociale e una ricapitalizzazione senza diritto di opzione per i vecchi soci possono essere letti come una sostanziale “spoliazione”, anche dell’eventuale valore economico residuale delle vecchie azioni, valore del tutto annullato per effetto dell’operazione, senza alcun riconoscimento neanche del valore dell’avviamento. Il Tesoro, in teoria, avrebbe dovuto quantificare – operazione certo di complicata realizzazione – il valore dei diritti di opzione, versandone l’ammontare ai soci che ne venivano privati per legge. E che un qualche valore di tale diritto vi fosse già all’epoca è un dato di fatto, se si considera che i soci avrebbero potuto monetizzare immediatamente tale valore, proprio vendendo il loro diritto di opzione.

A ciò si aggiunga che il Banco di Napoli fu ceduto alla Banca Nazionale del Lavoro per un prezzo irrisorio che ha successivamente generato un esorbitante plusvalore nella successiva vendita del Banco di Napoli a San Paolo Imi. In definitiva, la fondazione è stata obbligata ex lege a cedere “un capitale di sua proprietà per 61 miliardi di lire che si è moltiplicato prodigiosamente per 60 volte dopo essere divenuto di proprietà di Bnl” (Capelli, 31 s.). Si può dunque sostenere che, in definitiva, il salvataggio e la successiva privatizzazione della Banca Nazionale del Lavoro avvennero con il valore reale del Banco di Napoli realizzandosi, di fatto, una “forma occulta di aiuto di Stato alla Bnl” (Rispoli Farina, 7).

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