Se qualcuno aveva nutrito speranze a proposito del fatto che le nuove tipologie della prima prova scritta di maturità potessero essere qualcosa di realmente innovativo ed efficace, a quel qualcuno la pubblicazione (ritardatissima) da parte del Miur dei primi esempi ha certamente dissolto ogni sogno. Si tratta di tracce confuse, irrelate con i reali curricula scolastici, spesso superficiali e arrangiate alla bell’e meglio.
Mi concentrerò solo sulla famosa (famigerata) tipologia B, quella che chiedeva ai ragazzi di realizzare un articolo di giornale o un saggio breve, gettata dalla finestra con l’accusa di istigare al “centone” o al collage, con tutti i suoi diversi brani relativi all’argomento messi a disposizione dello studente. A parte il fatto che riordinare, riusare, mettere in relazione opinioni e argomentazioni altrui e partire da lì per crearsi un proprio punto di vista è attività nobile e basilare, che conviene imparare il più presto possibile – altro che “centone” -, ciò che viene dato in cambio non è certo meglio.
Ma procediamo con ordine: intanto è evidente l’intenzione di virare da un ambito critico argomentativo verso un’analisi di tipo linguistico. Nella prima parte di entrambi gli esempi forniti, infatti, si richiede all’allievo di individuare le argomentazioni principali del testo proposto (uno scritto di Umberto Eco corredato da una nota esplicativa pescata su Wikipedia nel primo, uno di Annamaria Testa – una pubblicitaria – nel secondo), come se si trattasse di dati oggettivi, ma non è così. Certo, gli snodi argomentativi sono più o meno evidenti, ma da qui a immaginare che a domande del genere ci sia una e solo una risposta ce ne passa. La linguistica, con buona pace di Luca Serianni, l’accademico che dirige la Commissione ministeriale preposta, non è una scienza e i suoi dati non sono falsificabili. Dunque come avverrà la correzione? Quanto di arbitrario ci sarà nel giudizio espresso?
Ma ancora: che senso ha una domanda che chiede di individuare “i punti salienti delle argomentazioni dell’autore”? I punti salienti del testo saranno le argomentazione medesime, a mio modesto avviso e a lume di senso comune. Dunque? Come si risponde a una domanda del genere, visto poi che, due righe più sotto, si chiede per l’appunto di individuare “gli argomenti che l’autore porta a sostegno della propria tesi”? In logica ci starebbe un: come volevasi dimostrare.
O ancora: che senso ha chiedere a un 18enne di valutare l’efficacia dell’andamento “paratattico” di un testo per la discussione di una tesi complessa? Quanti di quelli che mi leggono sanno con esattezza cosa sia la paratassi? O l’ipotassi? O ancora: come rispondere a una domanda in cui si chiede di spiegare la funzione testuale dei connettivi all’interno del brano di Eco? Certo, se gli allievi avessero frequentato i corsi di linguistica del prof. Serianni magari saprebbero rispondere, e anch’io probabilmente riuscirei a scriverci sopra qualche riga, visto il mestiere che faccio. Ma non è così per i nostri studenti.
Nessuno ha avvertito i membri della Commissione ministeriale che i curricula di italiano dei trienni di tutte le nostre scuole superiori sono di tipo spiccatamente storico-letterario, non linguistico, e che anche l’ora in più che da qualche tempo ci è stata assegnata deve essere dedicata a Dante, una cantica per anno, almeno otto canti all’anno?
Di linguistica, invece, non c’è proprio nulla. Se ne balbetta al biennio, per poi tacerne. Quando dovremmo farlo, in speciali corsi integrativi pomeridiani? Pagati da chi? Dalle famiglie degli studenti? Che allievi enciclopedici ci si aspetta che formino le periclitanti (in tutti i sensi) scuole italiane e gli insegnanti più sottopagati d’Europa? Non sarà un po’ ottimistico? Sarebbe meglio avere più linguistica? Non so. Forse sì, o forse no. Quello che so di certo è che è vergognoso partire a valle, invece che a monte.
Prima si riformino i curricula, trasformando una classe d’insegnanti – che è stata sostanzialmente formata ed è ancora formata per insegnare grammatica e/o storia della letteratura – in bravi linguisti. Poi si cambino le prove d’esame (e lo stesso vale per le benedette competenze di cittadinanza europea). Il contrario è troppo facile e vergognosamente perpetrato sulla testa di noi insegnanti e sui destini dei nostri allievi. Il tutto suona un po’ come: arrangiatevi da soli e risolvetevi il problema, che a noi piace di più così.
Ma al peggio non c’è mai fine, disse il poeta. Aveva ragione. La confusione, infatti, è simile anche per il resto delle prove d’esame. Gli Invalsi non sono obbligatori per l’ammissione, ma la prova si farà lo stesso. L’alternanza scuola lavoro andrà riformata e limitata, se non abolita, ma di essa bisognerà trattare durante il colloquio. La tipologia C della prima prova altro non è che un saggio breve sotto le mentite spoglie di una tradizionale traccia argomentativa. La terza prova viene abolita, sì, ma la seconda, proteiformemente, si trasforma in seconda prova doppia (al liceo classico, ad esempio, potrà essere insieme di latino e greco).
Non c’è più la tesina all’orale, ma ancora si parla di colloquio interdisciplinare (di cosa colloquieranno, in assenza di terza prova, i colleghi di materie scientifiche e tecniche in un classico, o in un artistico?), nessuno sa come andrà davvero il colloquio e come i presidenti (come chi scrive) dovranno gestirlo. Ma si istituisce un pomposo “albo dei presidenti d’esame”, sempre sottopagati, ma ora ammessi a un iperuranio superiore.
A tutto ciò il ministro Marco Bussetti risponde dicendo, cordiale e benigno, che nessuno impedisce alla Commissione di partire da un argomento a piacere. Un po’ poco, sinceramente. E a giugno mancano soltanto cinque mesi. Che dovranno bastare a noi insegnanti e ai nostri allievi di quest’anno. Gli altri hanno avuto un triennio intero per prepararsi, i maturandi 2019 solo cinque mesi. E va bene così. Non è così che funziona l’Italia, anche quella governata in nome del cambiamento?