Lo schermo si accende. La voce del cronista parla di incidenti tra la folla, confusione e spray al peperoncino: non è drammatica attualità ma il racconto dei funerali di Notorious B.I.G., nel marzo del 1997. Prima ancora dell’inizio del film vero e proprio, City of Lies ci costringe quindi – senza che gli autori lo potessero prevedere – a confrontarci con una riflessione amara tra passato e presente, tra Stati Uniti e Italia, tra esigenze di controllo e grandi folle riunite in spazi ristretti.
Anche in quei lontani anni 90 si parlava di cronaca nera legata al rap: B.I.G. fu ucciso soltanto pochi mesi dopo Tupac Shakur, suo ex-amico diventato peggiore rivale. Due fatti di sangue sui quali, a distanza di più di 20 anni, non è ancora stata fatta piena luce, in un intreccio di bugie e depistaggi in mezzo a cui City of Lies immerge lo spettatore. Il libro da cui il film è tratto si chiama LAbyrinth, con LA maiuscolo per indicare Los Angeles, e la sensazione è effettivamente di trovarsi in un labirinto ricco di vicoli ciechi e senza un’uscita definita. La pellicola si basa in buona parte sulle performance dei protagonisti Johnny Depp e Forest Whitaker, ma gli appassionati di rap saranno particolarmente emozionati dai momenti in cui sullo schermo appare Voletta Wallace, madre del rapper di Brooklyn, a interpretare se stessa e la sua eterna lotta per scoprire la verità sulla morte del figlio.
City of Lies, in uscita oggi nelle sale italiane, raccoglie nuovi spunti sui casi irrisolti di Biggie e Pac e racconta la dimensione investigativa dei casi parallelamente a quella umana delle persone che stanno ancora indagando. Ma il motivo per cui ne consiglio la visione è la sua testimonianza sul ruolo che il rap e i suoi protagonisti hanno ormai assunto nella società globale. Anche drammaticamente, quando rivalità ed enormi interessi economici si pagano col sangue.
Le morti di Tupac Shakur e Notorious B.I.G. sono state delle perdite enormi dal punto di vista artistico. Entrambi scomparsi prima di compiere 30 anni, hanno fatto in tempo a lasciare un’eredità straordinaria su cui anche noi rapper del 2019 continuiamo a costruire. Interessarsi alla verità sulla loro fine non significa inseguire giustizia tramite i tribunali o colpevoli da sbattere sulla sedia elettrica. Vuol dire ricercare il momento storico di “inizio della fine” della golden age del rap, e cercare di impedire che i semi della violenza e della stupida, cieca avidità continuino a generare vittime tra noi e tra chi ci ascolta.