di Marta Coccoluto
Il 2019 si annuncia come un anno di accelerazione nella trasformazione digitale. Con la legge di bilancio arrivano importanti misure per incentivare l’adozione di tecnologie digitali e per l’innovazione, interventi che vorrebbero porre il nostro Paese all’avanguardia a livello europeo. Investimenti in start up innovative, fondi per lo sviluppo e la sperimentazione di tecnologie emergenti, come il fondo blockchain, intelligenza artificiale e Internet of things, e una forte spinta alla digitalizzazione delle Pmi.
Dal 2019, l’espansione di Internet sarà vertiginosa, fino ad arrivare nel 2022 a un traffico superiore a quello dei “primi” 32 anni di vita del web (Cisco visual networking index Vni): saper usare abilmente le informazioni diventerà una competenza chiave. I cambiamenti tecnologici implicano però un necessario cambiamento culturale, un’innovazione che dovrà riguardare non solo i servizi e i prodotti ma anche i processi, il nostro modo di approcciare al lavoro e ai nuovi stili di vita legati alla trasformazione digitale. Se agli incentivi economici non si accompagnerà un vero e profondo cambiamento sul piano culturale e sociale, le misure economiche da sole non riusciranno a dare il cambio di passo necessario.
A fine 2018 il Censis fotografava un Paese arrabbiato, disorientato e pessimista, dove la sfiducia è ormai sistemica e il rapporto tra gli italiani e Internet è problematico e controverso. La percezione diffusa è che il web si sia trasformato nel posto dove sfogare il proprio individualismo e che, da mezzo per diffondere ed esercitare a livello globale democrazia e verità, sia diventato un luogo ostaggio di fake news e di propaganda selvaggia.
In tema di lavoro, ancora non si coglie a pieno l’aspetto delle opportunità del digitale, ma al contrario Internet evoca la minaccia dell’emarginazione dalla vita lavorativa. L’economia digitale cresce – secondo lo studio Il digitale in Italia di Anitec-Assinform il mercato digitale italiano è cresciuto nel 2017 del 2,3% e le stime sono positive anche per il 2019 (2,8%) – ma l’esito percepito è il dilagare del lavoro precario, sporadico e mal pagato. Il web sembra aver portato alla dissoluzione delle certezze lavorative, mentre l’innovazione e la tecnologia stanno disegnando un nuovo orizzonte di professioni, che ancora siamo incapaci di vedere e di formare, in un corto circuito tra la formazione e il lavoro che non consente di trovare le figure necessarie o di ricollocare quelle esistenti.
Il nostro è un Paese dove i diplomati sono in sovrannumero, mentre i laureati in Itc sono ancora troppo pochi: le aziende faticano a trovare alcune figure chiave in grado di innovare i prodotti e i servizi e la carenza di competenze digitali le rende meno competitive, rallentando la ripresa economica. Eppure l’economia digitale sta portando un passaggio da un modello organizzativo piramidale e chiuso a uno orizzontale e aperto. Un sistema in cui è più facile attrarre talenti, dove le competenze contano più dei ruoli e ai vincoli di orario e alle routine aziendali si sostituiscono gli obiettivi e il coinvolgimento.
Un nuovo approccio lavorativo, in cui le persone contribuiscono all’attività aziendale sulla base delle proprie competenze e non solo in base al proprio ruolo. Su questo scontiamo un’impreparazione culturale e strutturale ma lo smartworking, regolamentato dal 2017, sta prendendo sempre più piede. Attualmente sono 480mila gli smartworker in Italia, in crescita soprattutto nelle grandi imprese (+20% rispetto al 2017) e sfiorano l’8% degli impiegati statali. E quanti lo hanno scelto sono mediamente più soddisfatti dei lavoratori tradizionali.
Eppure le nuove modalità di lavoro – indipendente, svincolato da una sede fissa di lavoro, da poter svolgere ovunque grazie a una connessione al web – (che i Nomadi Digitali hanno sperimentato per primi, aprendo la strada alle piccole rivoluzioni lavorative che hanno già cambiato in meglio vita e lavoro di molte persone) sono viste come l’ennesimo strumento di precarizzazione e di sfruttamento.
Del resto, si dichiara ottimista solo un italiano su tre (dati Censis): manca un’idea di futuro e il cambiamento è un processo che non si riesce a governare, ma solo a subire. Una sfiducia verso l’esterno – che sia la politica, l’Europa, il web, l’economia – che forse tradisce una sfiducia in se stessi, nelle proprie risorse e possibilità personali. Invece l’adattabilità, la propensione al cambiamento e la capacità di apprendere rapidamente saranno gli asset su cui fare leva e che ci permetteranno di riprogettare il nostro futuro lavorativo e personale: perché al di là delle leggi, degli incentivi e dei finanziamenti, sono la forza e l’iniziativa di ciascuno di noi a trainare uno sviluppo vero e duraturo. Più intraprendenza e meno pessimismo, ogni persona è responsabile della propria capacità di prepararsi al futuro.