La prossima settimana il processo Ilva (nato dalle indagini di “Ambiente Svenduto”) entrerà nel vivo con l’esame degli imputati. Si incomincerà con quelli dell’Ilva per poi passare agli imputati che ricoprivano cariche politiche. Nelle prossime settimane saranno quindi interrogati anche gli allora presidenti della Regione e della Provincia (Nichi Vendola e Gianni Florido) e l’allora sindaco di Taranto (Ippazio Stefano). Tutti esponenti di spicco di Sel, Pd e centrosinistra.
La mia testimonianza nel processo Ilva
Questa settimana sono stato nuovamente sentito come testimone in tale processo. Ho dovuto ripercorrere, davanti alla Corte e agli avvocati, la lunga sequenza di fatti di cui sono stato testimone e che hanno portato alla scoperta della diossina a Taranto. Mentre ricostruivo quella storia nei suoi dettagli, mi stupivo nuovamente dell’inerzia della politica di fronte all’emergenza ambientale di Taranto. Nella mia deposizione emerge infatti che già dal 2001 la Commissione Europea sollecitava le varie nazioni, fra cui l’Italia, a individuare le fonti di diossina, a monitorarle, a informare la popolazione e a controllare che la popolazione avesse compreso l’informazione sulla diossina in modo da collaborare essa stessa alla soluzione del problema.
La Commissione Europea agiva in tal modo nel 2001 allarmata dal fatto che le dosi tollerabili di diossina fossero in molti casi superate, e inoltre sottolineava che il problema era stato sottovalutato. La Commissione Europea metteva in evidenza l’importanza di monitorare una particolare fonte emissiva di diossina: gli impianti di sinterizzazione degli stabilimenti siderurgici. E a Taranto vi era l’impianto di sinterizzazione più grande d’Europa: quello dell’Ilva.
Perché non hanno controllato l’Ilva?
Sarebbe stato un atto doveroso e conseguenziale – se i governi italiani fossero stati diligenti – attivare un controllo sull’Ilva come principale fonte di diossina in Europa. Infatti il ministero dell’Ambiente disponeva dal 2002 di un database (di nome Ines) in cui veniva riportata la quantità di diossina emessa dall’Ilva stessa. E in quel database emergeva un’emissione di diossina che non aveva pari in Italia e, addirittura, in Europa. Perché i governi italiani allora non hanno controllato la diossina dell’Ilva dopo la richiesta della Commissione Europea del 2001? E inoltre: perché la popolazione non è stata informata della presenza di diossina?
I dati presenti nel registro Ines, dal 2002 in poi, erano dati di stima della stessa Ilva. Quindi l’Ilva sapeva di produrre diossina, lo comunicava alle istituzioni ma le istituzioni non lo comunicavano alla popolazione. E non facevano verifiche ufficiali sull’Ilva. Le istituzioni non hanno quindi svolto quell’azione di informazione della popolazione che la Commissione Europea richiedeva nel 2001.
Nella mia deposizione in qualità di testimone ho letto l’abbondante documentazione che attesta questa anomalia. È del tutto evidente che a Taranto la sollecitazione della Commissione Europea del 2001 andò a vuoto: le istituzioni e la politica non raccolsero quel grido d’allarme. La dimostrazione di tale inerzia sta nel fatto che l’unica voce che sollevò il problema nel 2005 fu quella di PeaceLink. Nell’aprile del 2005 infatti scrissi io stesso – in qualità di portavoce di PeaceLink – un comunicato stampa che indicava nell’Ilva la più importante fonte emissiva di diossina in Europa. Nonostante la Rai avesse ripreso e rilanciato tale comunicato, il giorno dopo non vi fu nessuna reazione politica o sindacale. E la cosa mi stupì tantissimo. Giungemmo poi alla sconcertante scoperta che quella fonte emissiva di diossina non era mai stata monitorata dalle istituzioni preposte, nonostante la sollecitazione del 2001 della Commissione Europea. Le istituzioni preposte non avevano neppure comprato l’apparecchiatura per monitorare la diossina! Assurdo ma vero.
Il limite di legge “dimenticato”
A ciò si aggiunge che in Italia le istituzioni preposte avevano “dimenticato” che a Taranto doveva essere applicato il limite di legge per un potente cancerogeno emesso dall’Ilva: il benzo(a)pirene. E anche qui sono i cittadini a scoprire quella “dimenticanza” delle istituzioni e a mobilitarsi per chiedere il rispetto della legge. Le intercettazioni telefoniche disposte nel 2010 dalla Procura della Repubblica fanno emergere tutto il nervosismo di Girolamo Archinà, l’uomo dell’Ilva che tesseva i rapporti con il mondo della politica. E partono le richieste di “aiuto” dell’Ilva alla Regione Puglia.
L’inerzia delle istituzioni e il ruolo di supplenza dei cittadini
Ma ritorniamo all’altro potente cancerogeno dell’Ilva, la diossina. L’inerzia delle istituzioni emerge con chiarezza in quanto i primi controlli sulla diossina dell’Ilva non scattano nel 2005, dopo il comunicato di PeaceLink. Scattano solo due anni dopo nel 2007 quando – constatando l’immobilismo della Regione Puglia – PeaceLink passa alla denuncia pubblica che giunge sulla copertina dell’Espresso.
Vendola viene attaccato da me: “La pazienza non è infinita. Il livello di guardia è ormai superato, i veleni ci entrano in casa. Non chiedeteci più tempo: ora dovete rispondere pubblicamente del vostro operato”. Dopo una sollecitazione così forte iniziano i primi controlli nel 2007 per misurare la diossina. Sull’Ilva viene montata una sonda di titanio per fare i primi prelievi istituzionali di quella micidiale sostanza cancerogena che da tempo contaminava Taranto senza che i cittadini venissero neppure informati dalle istituzioni italiane.
Pecorino alla diossina
Dopo questa mossa vincente, PeaceLink passa nel 2008 a quella successiva: il controllo della diossina nella catena alimentare. È una vera e propria azione di supplenza delle istituzioni. PeaceLink giunge a commissionare a proprie spese l’analisi di un formaggio locale: a quel punto emerge che la diossina è purtroppo entrata nella catena alimentare.
Da allora in poi – grazie a un esposto di PeaceLink alla Procura della Repubblica – scattano le indagini della magistratura che confermano la presenza di diossina e di Pcb nelle masserie attorno all’Ilva. Come si può notare, ancora una volta l’allarme non parte dalle istituzioni ma dai cittadini, che pagano di tasca propria un laboratorio specializzato per avere i dati della contaminazione. Nasce “Ambiente Svenduto”, la prima indagine sull’Ilva che mette a fuoco non solo l’inquinamento dei camini ma anche l’intreccio con la politica.
Questa è in breve la storia che ho ricostruito in tribunale.