Cosa dire di Murakami Haruki (che il 12 gennaio compirà 70 anni), dopo le pagine splendide che il suo traduttore italiano Giorgio Amitrano gli ha dedicato in quel gioiello di libro che è IRO IRO, il Giappone tra pop e sublime (DeA Planeta 2018)? Posso dire solo che io ho amato tre libri di Murakami: Tutti i figli di Dio danzano (sei meravigliosi racconti tenuti insieme dal terremoto che nel 1995 provocò 6mila morti a Kobe), Norwegian Wood (uno dei suoi pochi romanzi in cui la dimensione fantastica e fiabesca non interviene) e il racconto-confessione di L’arte di correre, dove accanto alla sua passione per la scrittura racconta quella della corsa.
Kafka sulla spiaggia, considerato il suo capolavoro, l’ho trovato bellissimo fino a quando il vecchio misterioso Nakata non si mette a dialogare con i gatti di cui conosce la lingua. E lentamente tutti i personaggi, muovendosi in una realtà molto ben disegnata e dettagliata, non sprofondano nell’assurdo, come se fossimo entrati in una complessa irrealtà che corre dentro e dietro il quotidiano. Questo per dire che sono tra i lettori di Murakami che prediligono lo scrittore giapponese quando non esercita la sua potente fantasia fiabesca. Ma il suo modo di scrivere, la sua lama che incide di fino ogni superficie che tocca – sia essa città immensa, fumoso locale, o spersa periferia – dandole le tre dimensioni in cui il lettore può muoversi e “vedere”, essere dentro quell’universo ha pochi paragoni con altri scrittori.
Per celebrarlo nel giorno del suo 70esimo compleanno, permettetemi di usare le parole di Giorgio Amitrano: “Avendo tradotto diversi libri di Murakami, mi viene chiesto spesso quali sono secondo me le ragioni del suo successo. Rispondere non è facile. Quando ci si trova di fronte a un fenomeno di tali dimensioni (Murakami è tradotto in 50 lingue) nessuno, a cominciare dagli editori, sa darne una spiegazione certa. (…) Murakami ha cercato una propria strada come narratore, all’inizio faticosamente, tentando diversi esperimenti, e quando l’ha trovata ha avuto l’intelligenza di seguirla, dovunque lo portasse. A un intervistatore che gli chiedeva perché in Kafka sulla spiaggia avesse optato per alcune scelte narrative, aveva risposto che per lui scrivere un romanzo è come montare in groppa a un cavallo imbizzarrito e lasciarsi condurre senza sapere dove, aggrappandosi con tutte le forze al suo collo per non farsi buttare a terra”.
Dunque Murakami stesso a volte non ha idea di dove lo porteranno le sue storie. È un patto che il lettore deve accettare e percorrere la strada fino alla fine insieme allo scrittore: bisogna essere pronti a inoltrarsi per meandri misteriosi, pronti a un finale-non finale, dove niente viene completamente risolto. Così come accade nella vita, che si interrompe lasciando sempre un finale aperto, amori non consumati del tutto, odi mai espressi, parole non pronunciate.
Perfino Giorgio Amitrano, che da traduttore ne conosce le sottigliezze e i bruschi capovolgimenti della trama, confessa: “Quando mi viene chiesto di spiegare il successo di Murakami do risposte diverse (…) risposte che non convincono del tutto neanche me e cambiano a mano a mano che scopro in lui aspetti nuovi che ne modificano l’immagine. Di recente però ho pensato a un’ipotesi che potrebbe spiegare almeno una delle ragioni dell’attrazione che i suoi libri esercitano sui lettori. Murakami esprime una percezione della realtà globalmente diffusa ma ancora in gran parte sommersa, che lui, calandosi nel pozzo dell’inconscio, riesce a portare alla luce. I lettori riconoscono nei suoi romanzi (e racconti) il senso di crescente irrealtà e conseguente inquietudine che si sono infiltrati nella vita di tutti (…) Si dice generalmente che Murakami usi nelle sue opere narrative due registri: uno realistico e l’altro fantastico. L’affermazione è schematica ma veritiera”.
Io credo che Murakami, con la sua rappresentazione dell’irrealtà così saldamente insediata nella realtà, esprima meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi tale sentimento di angoscia, accontentando però anche – imprevedibilmente – la nostra voglia di esplorare questa dimensione irreale.
È bene dare qualche indicazione biografica: nel 1981, all’età di 32 anni, Murakami Haruki decide di chiudere il Peter Cat, il jazz bar che aveva gestito nei sette anni precedenti. Vuole dedicarsi solo alla scrittura. Decide che è il momento di cambiare vita: smette di fumare le 60 sigarette giornaliere e inizia a correre. Da quel giorno, mantenendo questo ritmo, scrive quattro ore al mattino e il pomeriggio corre dieci chilometri, compone 13 romanzi (conto solo quelli tradotti in italiano, un 14esimo – L’assassino del commendatore. Libro secondo – in uscita il 29 gennaio), saggi, raccolte di racconti e fa molte traduzioni dall’inglese, soprattutto di Raymond Carver, sua grande passione.
Ne L’arte di correre scrive che solo grazie all’attività fisica disciplinatissima riesce a eliminare le tossine che si producono durante l’atto pericoloso di scrivere, durante la lotta durissima con i lati più oscuri del proprio essere. Una disintossicazione efficace, visto che in 27 anni ha prodotto un’enorme quantità di pagine, con spirito sempre nuovo e una freschezza di chi sembra aver sconfitto la vecchiaia.