Quando ho scritto della proposta di amnistia per le donne condannate per aborto in Messico ho peccato di approssimazione e superficialità. Ho basato il mio articolo su informazioni sbagliate diffuse soprattutto da El Pais. Ma il punto della questione è che ho interpretato il ruolo della colonialista bianca ed europea che guarda al Messico come realtà in qualche modo inferiore a quella in cui vivo io. Ho scritto cose sbagliate per significato e perché dimostrano quanto sia importante interpellare le donne che fanno parte della rete femminista internazionale per apprendere conoscenze da loro, senza sovrascrivere i loro contenuti e con la disponibilità a rimettersi sempre in discussione. Per questo chiedo scusa a chi mi legge, al Fatto Quotidiano che ha ospitato il mio post e alle compagne che generosamente mi hanno resa partecipe di critiche e saperi che voglio condividere con voi. Ecco le informazioni corrette su quello che succede in Messico ed ecco anche alcune critiche puntuali al mio testo precedente.
“La frase ‘La legge che in Messico criminalizza l’aborto risale al 2016’ è quantomeno imprecisa, se non addirittura sbagliata. Non sappiamo dove Eretica abbia trovato questa informazione, ma a quanto ci consta, in Messico non esiste alcuna legge che criminalizza l’aborto risalente al 2016. La situazione è un po’ più complessa, vediamola.
Siccome il Messico è una repubblica federale composta da 32 Stati, e ogni Stato ha le proprie leggi sull’aborto, non è corretto parlare dell’aborto in Messico in generale. La situazione legale dell’aborto è molto polarizzata. A Città del Messico (che conta come uno stato a parte), l’aborto è stato depenalizzato nel 2007: quindi da più di dieci anni è legale ed è un servizio totalmente gratuito disponibile nelle cliniche pubbliche, oltre che private. Una parte degli aborti realizzati nella capitale, infatti, è di donne provenienti da altri Stati che vi si recano apposta per abortire, spesso accompagnate da associazioni che facilitano loro un percorso molto difficile.
Perché è vero che nel resto della repubblica le leggi sull’aborto sono altamente restrittive: l’unica motivazione legale per l’aborto in tutto il Paese è lo stupro. Per il resto, le clausole di legalità variano: pericolo di vita per la donna, pericolo per la salute della donna, malformazioni gravi del feto sono le più diffuse. È necessario sottolineare che, purtroppo, spesso tali clausole non vengono applicate, le donne sono rivittimizzate nelle istanze giuridiche e sanitarie, e l’accesso effettivo all’aborto legale è molto ristretto nella maggior parte del Paese, compromettendo evidentemente l’autodeterminazione delle donne.
La depenalizzazione nella capitale ha portato a una reazione regressiva a livello federale, laddove molti Stati hanno cambiato la propria costituzione per introdurvi un principio di “protezione della vita a partire dal concepimento”. È in questi Stati tradizionalmente più conservatori, cattolici, evangelici e reazionari che è più frequente la vera e propria criminalizzazione delle donne che abortiscono (per non parlare della criminalizzazione di coloro che hanno aborti spontanei o partoriscono feti morti) e della quale parla Eretica nel suo articolo. A proposito di questo aspetto, riportiamo i dati di Gire (Grupo de información por la reproducción elegida – organizzazione non governativa indipendente che si occupa di diritti sessuali e riproduttivi): il numero totale delle donne incarcerate attualmente è di 136, mentre 228 è il numero di persone condannate [altre info a questo link].
Rispetto alla possibile amnistia, che è l’argomento centrale dell’articolo, le donne incarcerate per aver abortito sono uno dei possibili soggetti a cui il nuovo governo sta pensando di applicare l’amnistia. Per il momento il tutto rimane ancora incerto visto che, come abbiamo specificato, il reato di aborto è un reato imputato a livello federale, il nuovo governo centrale di Lopez Obrador sta ancora cercando delle misure legali (amparo) per poter far valere questa possibilità in ogni Stato.
(…) Data la vastità di questo Paese è ovviamente difficile affermare anche che ‘il movimento femminista ha riempito le piazze per rivendicare l’aborto’. Sicuramente ci sono state più capitali statali che hanno visto manifestazioni femministe, ma probabilmente le immagini a cui ci riferiamo quando affermiamo, dall’Italia, che ‘si sono riempite le piazze’ sono immagini di Città del Messico, dove i collettivi femministi e non solo hanno manifestato a favore di una depenalizzazione generale nel resto del Paese.
(…) De-romantizzare il Messico è stato difficile anche per noi, come de-romantizzare tutta l’America Latina, così come è stato difficile e lo è tutti i giorni decolonizzare il nostro stesso sguardo e il nostro stesso pensiero. Difficile farlo quando sulla nostra pelle la sentiamo, la differenza, tra portare in giro il nostro corpo di donne in Messico e farlo in Italia. (…) Non diremo mai, quindi, che essere donna in Italia e in Messico è la stessa cosa: non lo è. (…) Ovviamente l’Italia non è il primo Paese al mondo per femminicidi, lo è il Messico (con nove femminicidi al giorno secondo gli ultimi dati), e la differenza si sente. Nemmeno per quanto riguarda l’aborto, tema scatenante di questa riflessione, possiamo far equivalere una situazione di totale legalità a richiesta della donna come in Italia (seppure con le crescenti limitazioni al diritto, che conosciamo e di cui, chissà, potremmo parlare/scrivere in un’altra occasione), con alcune realtà messicane dove appunto si rischia il carcere o comunque si abortisce nell’illegalità e spesso in situazioni di insicurezza.
(…) Quando si scrive che in Messico ‘la condizione della donna è dunque conseguenza di una mentalità che grava su tutte le donne, obbligate a recitare copioni in cui i protagonisti sono gli stereotipi sessisti’, ci verrebbe un po’ da parafrasarla, dicendo che ad essere protagonisti dell’articolo in questione sono un po’ gli stereotipi colonialisti. Di fatto gli Stati messicani dove si verificano la maggior parte delle detenzioni per aborto (che riguardano sia donne che abortiscono, sia persone che le aiutano/eseguono gli aborti) sono spesso stati del centro-nord del Paese, e non del Sud, come sembra sostenere l’articolo.
Ci teniamo a sottolineare quest’aspetto perché c’è un’altra affermazione nell’articolo che ci ha fatto un po’ drizzare i capelli, ed è la seguente: ‘C’è un divario culturale e linguistico tra i messicani del Nord e quelli del Sud, che parlano solo i dialetti locali risalenti ai linguaggi Maya‘. Questa frase è davvero un po’ un concentrato di colonialismo e razzismo che proprio non ci aspettavamo, frutto crediamo di una scarsa informazione rispetto al contesto di cui si scrive. In Messico si usano 64 lingue indigene, che appunto non sono dialetti, ma lingue. Considerare come “lingua” degna di questo nome solo lo spagnolo rivela uno sguardo colonizzatore ed eurocentrico, che occulta la realtà di un Paese molto esteso e culturalmente eterogeneo, dove le comunità indigene (delle quali i maya sono solo una piccola parte) con le relative lingue sono presenti sia nel nord che nel sud. (…)
(…) si scrive che ‘La criminalizzazione dell’aborto in Messico è sicuramente una conseguenza del fanatismo ultra cattolico che caratterizza la loro cultura’. (…) Ma quale sarebbe ‘la loro cultura’? Quale delle tante culture che caratterizzano i multipli sincretismi di questo Paese, come di tanti altri? Cosa penseremmo se leggessimo la stessa frase riferita però all’Italia? Accetteremmo che venisse banalizzata ‘la nostra cultura’ così? E in Italia non siamo immersi nella cultura cattolica, non abbiamo il Vaticano tra le ovaie a ogni piè sospinto (…) ?
Se si scrive: ‘Se gli atti intimidatori dicono che le donne non devono uscire o interessarsi ad altro che non sia la riproduzione e il matrimonio eterosessuale non si può immaginare che in Messico vi sia una resistenza attiva che coinvolge ogni persona del Paese’, noi vorremmo ricordare che qui a Città del Messico il matrimonio tra persone dello stesso sesso e l’adozione omoparentale dal 2009 sono legali, recentemente le persone trans possono scegliere di non far figurare il sesso assegnato alla nascita sul documento d’identità, e c’è una delle migliori leggi sull’identità di genere, che dal 2014 permette alle persone di autodefinire il proprio genere senza nessuna altra clausola. Ovviamente questo non corrisponde a un contesto paradisiaco e libero da lesbo-omo-bi-transfobia né nella capitale né nel resto del Paese, ma mette in luce come probabilmente a una serie di soggettività (e non solo alle donne) possano arrivare diversi discorsi e possano entrare in contatto con diverse pratiche.
Per quanto riguarda l’inimmaginabilità di una ‘resistenza attiva che coinvolga ogni persona del Paese’, ci chiediamo: ma dove mai questo accade? Forse che in Italia possiamo vantarci di resistere in maniera ‘migliore’ delle altre? Forse da noi, noi femministe riusciamo a raggiungere e accompagnare tutte le donne (…) ?
Come femministe, come compagne, come alleate, pensiamo sia necessario assumersi la responsabilità e ammettere di non sapere qual è la realtà del Messico, dell’India, dello Sri-Lanka e di tutti i ‘sud del mondo’ in cui non siamo mai state [o non a sufficienza, se non per turistear (cit.)] e non abbiamo vissuto. Crediamo invece che ci interessi documentarci e sapere come vanno le cose davvero in posti lontani da noi, ma che sappiamo che hanno sempre più a che fare con noi nel mondo globalizzato e interdipendente in cui viviamo. (…) Ci sono un sacco di femministe sparse per il mondo e siamo tutte più o meno interconnesse: condividiamo saperi dal basso come si ripete da tempo. Condividiamoli con lentezza, confrontiamoci”.