“Gli inglesi hanno veramente tutto in comune con gli americani, tranne, naturalmente, la lingua”. Il celebre aforisma, o forse dovremmo dire paradosso, di Oscar Wilde contenuto ne Il fantasma di Canterville potrebbe oggi applicarsi alle relazioni tra spagnoli e latinoamericani, tra la lingua ‘peninsular’ e il castigliano praticato nell’emisfero australe.
La decisione della piattaforma streaming Netflix di fare ricorso ai sottotitoli in spagnolo per un film prodotto e ambientato in Messico ha sollevato non poche polemiche.
La pellicola è Roma, dall’omonimo quartiere popolare di Città del Messico, scritta e diretta da Alfonso Cuarón, 57 anni, un film di successo – già premiato alla Mostra del cinema di Venezia con il Leone d’oro – ora selezionato per rappresentare il paese sud americano ai premi Oscar 2019 nella categoria per il miglior lungometraggio in lingua straniera. Per il regista messicano si tratta di una scelta «provinciale, ignorante e offensiva per gli stessi spagnoli».
“Roma, un film in spagnolo sottotitolato in spagnolo” titolava pochi giorni fa El País sottolineando la sostanziale illogicità di usare sottotitoli per tradurre “mamá” con “madre” o per vedere cambiato qualche pronome personale (l’ustedes latinoamericano, il nostro ‘voi’, diventa vosotros nella lingua ‘peninsular’). Jordi Soler, scrittore messicano da anni residente a Barcellona, ha lanciato i suoi strali contro l’uso dei sottotitoli per lo spagnolo ‘peninsular’ e quello latinoamericano, scelta definita in un tweet “paternalistica, offensiva e profondamente provinciale”.
En España Roma de @alfonsocuaron está subtitulada en español peninsular, lo cual es paternalista, ofensivo y profundamente provinciano
— Jordi Soler (@jsolerescritor) December 16, 2018
Un lavoro di traduzione – in verità non particolarmente complesso – che mette in discussione il castigliano come lingua comune, come collante culturale. Non è questa la prima volta, era già successo col film colombiano Nueve Reinas o con il più noto Amores perros, opera prima del regista Iñárritu, anch’essa candidata nei primi anni 2000 all’Oscar come miglior film straniero.
Il dibattito è aperto, in un paese come la Spagna nel quale la questione linguistica è anche politica, con l’idioma spesso visto come uno strumento per affermazioni nazionalistiche, per rivendicazioni identitarie o per nuove pratiche discriminatorie.
Juan Goytisolo, uno dei massimi scrittori spagnoli, vincitore del premio Cervantes 2014, amava ripetere “catalani a Madrid e castigliani a Barcellona, la nostra ubicazione è ambigua, minacciata di ostracismo da entrambi i lati”. Un ostracismo che nella storia del paese ha significato anche messa al bando di una lingua in favore di un’altra.
La scelta dei sottotitoli ha scatenato un dibattito sull’unitarietà idiomatica dello spagnolo, con polemiche che hanno raggiunto l’effetto di far ritirare le didascalie alla produzione di Roma. I filologi da sempre discutono sull’evoluzione di una lingua che unisce (parti di) due continenti, sostenendo che in linea di massima l’idioma mantiene una unità strutturale interna respingendo così l’antico pessimismo dello scrittore Rufino José Cuervo che in una famosa frase profetizzava: «Siamo alla vigilia di una separazione, proprio come si separarono le figlie dell’Impero romano».
La conferma dell’unità sembra darla un saggio di José María Merino, di recente pubblicazione, un potente manifesto in favore dello spagnolo che dice tutto già nel titolo: “Más de 555 millones podemos leer este libro sin traducción” [Più di 555 milioni possono leggere questo libro senza traduzione].