“Non è prevista alcuna finestra temporale per i ricollocamenti, perché queste procedure sono ad hoc e prive di regolamentazioni”. Neil Falzon è direttore di Aditus, ong maltese che si occupa di diritti umani, in particolare dei migranti. È stato tra le voci della società civile maltese che ha spinto l’hashtag #LetThemIn, “facciamoli entrare”, nel momento in cui i 49 migranti a bordo di Sea Eye e Sea Watch ancora si trovavano in mezzo al mare, in attesa di un porto sicuro. “Queste procedure avvengono al di fuori ogni sfera legale e di policy, quindi non devono rendere conto a nessuno standard di legge e sono del tutto non trasparenti”, aggiunge.
Ora che i migranti sono arrivati a La Valletta, si trovano all‘Initial Reception Center di Marsa, “un centro per i controlli iniziali, dal quale non possono allontanarsi, quindi de facto in stato di detenzione”. Così è iniziata per loro un’altra odissea, burocratica, fino all’effettivo ricollocamento. Quanto durerà è impossibile stabilirlo.
Gli accordi bilaterali per i ricollocamenti non seguono alcuna prassi e sono concordati tra i singoli Paesi. Non esistono regole a cui attenersi e si basano solo sulla “volontarietà”. Nel caso in cui restino solo parole al vento, non ci sono nemmeno sanzioni. Da qui il motivo dei ritardi, già evidenziati da Matteo Salvini in polemica con Malta nei giorni scorsi. Il commissario europeo agli Affari interni, Dimitris Avramopoulos, “è pronto a incontrare il governo italiano”, ha detto la sua portavoce il 10 gennaio, per rendere conto dei mancati ricollocamenti e nella speranza di poter uscire dall’impasse Malta-Italia.
Per ora i funzionari italiani ancora non si sono recati a sull’isola per cominciare le procedure d’identificazione, primo passo verso la ricollocazione. Non è nemmeno chiaro di quante persone si tratterà: le cifre oscillano tra i 10 e i 15, anche se fonti dal Viminale precisano che la posizione ufficiale è che ne arriveranno zero, almeno fino a quando non saranno gli altri Paesi europei che per primi non rispetteranno la parola data.
Altro problema sono i criteri di selezione, anche questi imperscrutabili: i Paesi si scelgono quali migranti vogliono e quali no, a propria discrezione. Ad esempio, l’Irlanda, stando alle notizie dei media locali, è disposta ad accogliere cinque minori non accompagnati. “Ci sono Paesi rapidi che scelgono e trasferiscono i migranti nel giro di giorni. Altri sono lenti al punto che i migranti si dovranno spostare in altre strutture fino alla loro partenza”, prosegue Falzon. A quel punto, non essendo in stato di fermo, i migranti saranno anche liberi di andarsene e rendersi irraggiungibili.
È evidente che così com’è il sistema non può funzionare. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) avevano a giugno 2018 sottoposto alla Commissione europea una proposta per introdurre delle “disembarkation platform”, piattaforme di sbarco obbligatorie, dalle quali poi gestire le procedure di ricollocamento, che a quel punto dovrebbero diventare obbligatorie. La discussione sulla riforma del Sistema europea comune d’asilo, Ceas, è però in stallo al Consiglio d’Europa dal giugno 2016.
A questo si aggiunge la mancata riforma del Regolamento di Dublino, la Bibbia delle regole sulla gestione dei migranti e dei richiedenti asilo in Europa. Il 7 gennaio alla Commissione Libe, sede dove si discute proprio di questo, si è parlato di un rapporto preparato dagli esperti dell’Europarlamento lo scorso ottobre. Il titolo è “I costi della non-Europa nelle politiche dell’asilo”. Il rapporto stima che le inefficenze nei trasferimenti così come sono previste oggi dai regolamenti vigenti costino all’Unione tra i 2,5 ei 4,9 miliardi di euro all’anno. I dettagli più interessanti sono che tra i 186 e i 236 milioni di euro sono causate da richieste di trasferimento che alla fine non vengono approvate, evitabili con una maggiore programmazione, e tra i 390 e i 509 milioni di euro sono richieste approvate ma mai effettuate. Se queste sono le perdite di un sistema regolamentato, è presumibile che siano altrettante anche in un sistema “informale”.
Chi ha cominciato a gestire i trasferimenti dei migranti con accordi bilaterali? La Germania, che li ha resi stabili con Spagna, Grecia, Italia e Francia. Accordi sui quali la Commissione ancora non si è espressa. Lo dice Ecre, il Consiglio europeo per i rifugiti e gli esuli, una rete di 95 ong da 40 Paesi europei che difendono i diritti di migranti e richiedenti asilo, in un rapporto di dicembre che si intitola “Accordi bilaterali: implementazione o superamento del regolamento Dublino?”. Il documento si concentra sugli effetti di questi accordi sul piano legale e quello politico.
Gli accordi, infatti, sono stati presentati in Germania come l’alternativa per superare lo stallo nelle discussioni sulla riforma del Ceas, che poi è il motivo per il quale ci si rimpalla le responsabilità nell’accogliere i migranti. Secondo la lettura che ne dà Ecre, negli accordi tedeschi “il suggerimento è che l’impasse nel processo di riforma giustifichi questi accordi allo scopo di costruire giustificazioni politiche per ignorare la legge”. E ancora: “Bypassare gli obblighi giuridici attraverso accordi informali con il pretesto di un prossimo accordo politico sulla riforma del sistema di asilo comune europeo mina la credibilità di quello attuale e di ogni eventuale pacchetto di riforma sull’asilo. Se gli Stati membri stanno deliberatamente perseguendo e stanno superando le violazioni delle norme in materia di asilo ora, non ci sono molti motivi per ritenere che si asterranno dal farlo in futuro”.
In sostanza, ogni accordo bilaterale contribuisce ad allontanare una visione comune in materia di asilo e avvicina al contrario l’ipotesi che ogni sbarco faccia storia a sé. In altre parole, l’inizio della fine di una politica comune europea in materia di accoglienza.