Tutto quello che è stato detto sul comandante “Sully” Sullenberger (anche nel film prodotto e diretto da Clint Eastwood) e sull’ammaraggio sul fiume Hudson del 15 gennaio 2009 forse non rende ancora abbastanza onore a quel suo processo mentale che nel breve volgere di quei tre minuti cruciali fece la differenza tra la vita e la morte di 155 persone tra passeggeri e membri dell’equipaggio.
Sullenberg e il primo ufficiale Jeffrey Skiles appartengono alla generazione (la mia) dei piloti nati prima dei sistemi fly-by-wire e glass-cockpit. Molto sinteticamente, negli aerei dotati integralmente o parzialmente di sistemi fly-by-wire il controllo dei sistemi di volo è affidato a una serie di computer anche se largamente supervisionato dai piloti: essi però non riescono mai a effettuare un over-ride completo del sistema che semplicemente non accetta input al di fuori del suo programma. A volte una situazione di grave emergenza può richiedere una deviazione estrema dai parametri di volo standard, non contemplata dai programmatori dei computer ma che in molte occasioni ha consentito a piloti esperti di evitare incidenti disastrosi.
Prima dei sistemi fly-by-wire i comandi aereodinamici e dei propulsori degli aerei erano fisicamente controllati dal personale di condotta che aveva facoltà, in extrema ratio, di “staccare tutto” e “prendere in mano” (letteralmente) l’aereo per farlo uscire anche in modo anticonvenzionale da un’emergenza estrema. Molti anni fa, quando inizia a occuparmi per conto della commissione tecnica del mio sindacato dei piloti di linea dei velivoli Airbus di nuova generazione che la compagnia di bandiera stava per acquistare, rilevai (assieme alla quasi maggioranza dei colleghi) l’esasperazione del controllo dei computer che in alcune fasi del volo possono anche rimuovere i piloti dai comandi.
Sullenberger e il suo primo ufficiale erano piloti abituati a pilotare “veramente” un aereo, sentendoselo fisicamente in mano, ma nel corso della loro carriera transitarono (forse con qualche perplessità) a una cabina di pilotaggio dove il contatto fisico con il velivolo è totalmente rimosso: l’aereo non necessariamente obbedisce ai comandi dei piloti se gli stessi dovessero deviare troppo dai parametri stabiliti da qualche oscuro programmatore in sede di progettazione. La grandezza dell’“airmanship” di Sullenberger risiede nell’essere riuscito ad armonizzare un sistema di volo non programmato a gestire né un’emergenza così estrema né tantomeno un ammaraggio con la sua grande esperienza su velivoli convenzionali, inclusi gli alianti!
L’Airbus 320, come tutti i moderni aerei commerciali plurimotori, prevede solo in linea remotamente teorica lo spegnimento in volo di tutti i propulsori: le statistiche danno forse ragione ai progettisti ma provate a chiedere a quei piloti che ci si sono trovati cosa si prova quando al 747 con cui stai volando in crocera si “piantano” tutti e quattro i turbofan? O magari se ne “piantano” tre al decollo al massimo peso? La lista di questi eventi bizzarri ma non totalmente infrequenti è lunga ma la ricetta per uscirne è sempre la stessa: un addestramento di prim’ordine e una esperienza considerevole consentono ai piloti di prendere la situazione in mano e uscirne anche in maniera anticonvenzionale. O almeno provarci.
Sullenberger e il suo co-pilota avevano tutta l’esperienza, la competenza e l’addestramento necessari ma non avevano un aereomobile che potesse necessariamente cooperato: in pochi possono apprezzare quello che in tre, cortissimi minuti i due piloti sono riusciti a fare. La relatività della percezione del tempo al simulatore differisce molto da quella in volo: nonostante la simulazione abbia raggiunto livelli incredibili, dentro di te sai che la peggiore delle cose che ti possa accadere sono le rampogne dell’istruttore. Sul volo 1549 dal momento dell’impatto con i volatili a quello con il fiume Hudson passano 180 secondi durante i quali sono state eseguite complesse procedure di emergenza, gestite le comunicazioni radio e prese decisioni drammatiche: credo che ben pochi piloti della generazione fly-by-wire e glass-cockpit avrebbero potuto nemmeno concepire ed eseguire un atterraggio fuori campo, men che mai un ammaraggio nella densamente popolata area di New York.
Posso a malapena immaginare il silenzio rumoroso del solo fruscio aereodinamico in cabina di pilotaggio in quella manciata di secondi quando Sullenberger “manipola” il sistema di volo e riesce a far volare l’Airbus 320 secondo un profilo assolutamente non previsto: quello di un aliante. Il materiale umano richiesto per questo tipo di prestazioni è decisamente raro ma credo che lo sia ancora di più nelle nuove generazioni di piloti di linea: l’audace balzo tecnologico in avanti che vide molti anni fa Airbus Industries imporre una filosofia di condotta del volo in grado di rimuovere (parzialmente o totalmente) i piloti dalla catena di comando fu sicuramente imposto anche dall’enorme crescita del traffico aereo: si rese necessario trovare sempre più piloti con il conseguente e inevitabile decremento degli standard addestrativi e di selezione degli stessi.
Molto semplicemente: aerei più facili (finchè tutto va bene) da portare e piloti con livelli di preparazione ben diversi dal periodo ante fly-by-wire. Tutto questo è ampiamente dimostrato dagli standard minimi (anche medici) di accesso al lavoro di pilota di linea e da troppi tragici episodi. Fra i più tristemente eclatanti e recenti il volo Air France 296 il cui equipaggio di condotta non riesce a capire fino in fondo cosa sta succedendo (ignorando i fondamentali del volo) e il German Wings 9525, sul quale un copilota con gravi e segnalati problemi psichici e addestrativi riesce comunque a diventare pilota di linea e schianta coscientemente l’aereo contro una montagna. Onore al comandante Sullenberger e al primo ufficiale Skiles, che ci ricordano e anzi dimostrano ampiamente che rimuovere il fattore umano da una cabina di pilotaggio può essere un errore fatale!