Trani, fine dicembre 2015, inizi di gennaio 2016. Il maggiore delle fiamme gialle Carmelo Salamone entra in un ufficio del tribunale con vista sulla splendida cattedrale e sull’Adriatico. In mano ha delle carte, che mette sul tavolo di Antonio Savasta, il pm titolare di un’indagine su delle fatture false. Emesse da piccoli imprenditori pugliesi (Dimonte, Rizzitelli, Belgiovine), incassate da grossi nomi fiorentini: si tratta di almeno 6,5 milioni di euro per operazioni inesistenti. Ma il magistrato ha deciso che non vuole indagare la sponda toscana dell’operazione. A Salomone qualcosa non torna. E i suoi sospetti aumentano quando, nel dicembre 2015, legge un articolo del Fatto Quotidiano pubblicato il 19 settembre: si dà conto dei progetti di un imprenditore di origini barlettane che ha avuto grande successo in Toscana con gli outlet di lusso del gruppo Kering e ora vuole replicarne il successo a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il suo nome è Luigi Dagostino e si fa accompagnare da Tiziano Renzi, il padre dell’allora presidente del Consiglio, alle riunioni preliminari con i sindaci delle città scelte per l’investimento.
Quando Salomone legge il nome dell’imprenditore salta sulla sedia: Dagostino è colui che di fatto gestisce o rappresenta le società toscane che hanno incassato i 6,5 milioni di fatture per operazioni inesistenti. Nelle sue indagini e nell’articolo del Fatto ci sono nomi ricorrenti, di persone e società: Nikila, Mecenate, Tramor, Luigi Dagostino, Maria Emanuella Piccolo, Ilaria Niccolai (rispettivamente moglie e compagna dell’imprenditore nativo di Barletta). Per l’investigatore il quadro è chiaro: stampa l’articolo e lo porta al magistrato Antonio Savasta. “Lo lesse, ma non cambiò idea e disse che non voleva inviare la comunicazione di notizia di reato alla Procura di Firenze per utilizzo di fatture false”, dice Carmelo Salomone il 23 aprile 2018 ai magistrati della procura toscana, che nel frattempo hanno avviato un’indagine sulla vicenda. Un’inchiesta partita proprio grazie a Salomone. L’ufficiale della Guardia di Finanza, infatti, un paio di mesi prima, constatata la volontà di Savasta di non approfondire il caso, chiese il permesso di utilizzare i dati per fini fiscali. Il via libera arrivò: non poteva essere altrimenti. A gennaio 2016, Salomone scrisse ai colleghi di Firenze e inviò loro tutto il materiale raccolto.
Dopo due anni e mezzo, il 13 giugno 2018 alle ore 16.47, l’agenzia Ansa scrive: “È l’imprenditore pugliese Luigi Dagostino, 51 anni, diventato in Toscana il ‘re degli outlet’, l’imprenditore arrestato oggi dalla guardia di finanza di Firenze in esecuzione di un’ordinanza del gip Fabio Frangini e su richiesta del pm di Firenze Christine von Borries“. Fatture per operazioni inesistenti, “emesse da società pugliesi, tra cui la Building & Engineering di Barletta srl, amministrata da Leonardo Dimonte, la ditta individuale Ruggiero Rizzitelli di Barletta che il gip nel suo provvedimento definisce ‘cartiera’, la Bielle Costruzioni, Futura Costruzioni e House Builders, tutte di Barletta”. E ancora: “Il gip ha disposto il sequestro preventivo, anche finalizzato alla confisca per equivalente dei seguenti importi, tra somme di denaro disponibili in conti correnti, beni immobili e mobili: 2.943.507 euro a carico di Luigi Dagostino; 533.450 euro a carico di Maria Emanuella Piccolo; 1.139.400 per Ilaria Niccolai. Sequestro preventivo, per l’evasione di Iva e Ires, nei confronti delle società legate, in vario modo a Dagostino (a cui viene ricondotta una ‘galassia’ di 13 società) che utilizzavano le fatture false, ossia Andi (659.357 euro), Mecenate 91 (306.900 euro), Uno Invest (533.450 euro), Nikila Invest (1.139.400 euro), Tramor (334.400 euro)”.
I soliti nomi, insomma: il finanziere Carmelo Salomone, da Trani, ci aveva visto giusto. Due anni e mezzo prima. Ma il pm Antonio Savasta, arrestato lunedì 14 gennaio insieme al collega Michele Nardi con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso, aveva preferito non procedere. Nessuna iscrizione di Dagostino nel registro degli indagati, nessuna comunicazione alla procura competente (quella di Firenze). Il motivo, stando all’accusa della Procura di Lecce, è che Savasta, in cambio del silenzio investigativo e di azioni finalizzate ad insabbiare le indagini (leggi l’articolo di Daniele Fiori e Rosanna Volpe) ottiene soldi e gli incontri con Lotti e Legnini, sperando di toccare le corde giuste per ottenere il trasferimento da Trani a Roma. Non è dato sapere se quegli incontri (che ci sono stati) siano andati a buon fine. L’unica certezza è che Antonio Savasta ha lavorato nella Capitale dal marzo del 2017 fino a ieri, quando è stato portato nel carcere di Lecce.
Leggi gli articoli del Fatto su Dagostino, Tiziano Renzi e gli outlet