“Le pene devono tendere alla putrefazione del condannato”. È questo il nuovo articolo 27 della Carta Costituzionale, per come lo vorrebbero coloro che si augurano che un detenuto marcisca in galera. Un’affermazione che ci riporta a un’idea medievale di giustizia.

Non voglio parlare del fatto evidente che nel qualificare più e più volte Cesare Battisti come un “assassino comunista” venga ostentata la connotazione politica del desiderio di vendetta, che nulla dovrebbe avere a che fare con il corretto corso della giustizia e con le pene per i reati gravissimi per cui Battisti è condannato. La pena in uno Stato democratico di diritto è la soluzione legale per sottrarsi ai rischi di vendetta. Per decenni ciò era considerato assodato nella vita politica e culturale italiana. Oggi si intende riaffermare un’idea di pena spettacolarizzata, come ai tempi della ghigliottina sulla pubblica piazza.


Non voglio ricordare che non si può certo parlare di impunità in relazione alla stagione politica degli anni Settanta del secolo scorso, ma dell’esatto contrario. E che 6mila persone – delle oltre il triplo che vennero inquisite, alcune delle quali avevano commesso crimini gravissimi – hanno trascorso o stanno trascorrendo lunghi e lunghissimi anni in galera, con sentenze rese sproporzionate da leggi emergenziali e da automatismi sanzionatori che hanno cancellato ogni valutazione delle singole azioni criminose.

Non voglio neanche parlare della pena dell’ergastolo, che molti pensatori democratici – non ultimo Aldo Moro – hanno qualificato come disumana e contraria a parametri avanzati di civiltà giuridica e che vorrebbe quantomeno che si smettesse di sorridere ai fotografi mentre la si augura a qualcuno.

Non voglio, infine, commentare la decisione di indossare la giacca della Polizia da parte di un ministro che dimentica la complessità del proprio ruolo, il quale affianca un Dipartimento per le libertà civili a quello di pubblica sicurezza.

No, non voglio parlare di tutto questo. Vorrei solo contribuire nel mio piccolo a tenere alto il senso di umanità, i diritti umani, i valori dei nostri Padri costituenti che nelle prigioni c’erano stati davvero. Chi conosce la realtà dei nostri penitenziari, chi si occupa di carcere da tanto tempo e lo ha fatto sempre nel faro della Costituzione italiana, prova sconcerto nel sentire un ministro della Repubblica affermare soddisfatto che qualcuno “marcirà in galera”. È un modo per augurare la morte. Una morte piena di sofferenza. Non è questo il senso dello Stato e delle istituzioni della giustizia che ci appartiene.

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