Allora, udite, udite! La notizia è questa: dopo anni di lavoro un neurochirurgo milanese dell’ospedale dell’Università Bicocca avrebbe accertato le vere cause della morte di Giacomo Leopardi, che non sarebbero da ascrivere al Morbo di Pott, bensì a spondilite anchilopoietica, una malattia genetica rara. Per farlo, il dottor Erik Sganzerla, ha studiato attentamente le circa 1600 lettere di Giacomo, fitte di riferimenti alle sue pene fisiche e individuando e mettendo in relazione i sintomi lamentati avrebbe così raggiunto la sua conclusione. Dice di aver fatto tutto quest’impegnativo lavoro per dimostrare, pensate un po’, che Leopardi non era un depresso, uno “sfigato”, ma soltanto uno sfortunato malato.

Ovviamente siamo tutti grati al dottor Sganzerla della sua impegnativa ricerca, ma ci rimane qualche dubbio sul senso di tutto ciò. A chi interessa accertare la reale patologia della morte di quello che, a mio modesto avviso, è uno dei poeti più grandi, profondi e decisivi di tutti i tempi? Quando mai la depressione è stata un problema nel giudizio storico ed estetico su autore? Vede, gentile dottore, il fatto che Giacomo ci abbia lasciato per spondilite anchilopoietica, dal punto di vista poetico, che poi è l’unico che conti nel caso del contino Leopardi, ha una sua rilevanza solo, come dire, allitterativa, perché la nuova diagnosi, anchilopoietica com’è, ci pare per assonanza più adatta a chi scrisse ciò che Giacomo scrisse.

I poeti, gentile dottore, lei non ci crederà, non muoiono mai, l’unica cosa in grado di ucciderli è la noncuranza per la loro opera. È quella, la noncuranza italiota, la vera patologia leopardiana. Pensi che, mentre le altre nazioni d’Europa fanno a gara per tradurre in altre lingue i loro poeti e intellettuali, con sovvenzioni e aiuti statali, per completare la traduzione in inglese dello splendido Zibaldone si è dovuta attendere la carità (probabilmente pelosa) di Silvio Berlusconi, che ci mise 100mila euro. Incredibile, vero? Chissà che effetto avrà fatto la cosa alle poche ossa spaiate che rimangono dello scheletro del recanatese nel sacello che la mia partenopea città gli ha dedicato. Poche come sono, si saran strette le une alle altre per sconfiggere i brividi.

Certo, non che Berlusconi ci abbia pensato di suo, ha risposto, unico, alla polemica campagna messa in piedi da un eccellente scrittore italiano, Antonio Moresco, aiutato da qualche intellettuale di ben altra sponda politica come Gnocchi e Parente. Insomma, grazie alla convergenza parallela (e virtuosa) di tre autori italiani finalmente esiste una versione inglese completa dei pensieri e delle riflessioni di uno degli intellettuali italiani più prestigiosi di sempre.

Ma poco più di questo: ora si festeggia non so che centenario dell’Infinito, l’unica sua poesia davvero letta e conosciuta, poi magari qualcos’altro si farà per centenari sparsi di nascita e di morte. Un film già è stato realizzato (e si è molto discusso se il protagonista fosse davvero fisicamente somigliante al Contino, pensi che ironia per chi scrisse che “l’Io è corpo”). Ma, sostanzialmente l’Italia ha dimenticato Leopardi. Nega ogni giorno i suoi valori, la sua raffinata intelligenza, la sua speculazione acuta, il suo coraggio di sperimentare forme nuove, la sua sensibilità così profonda, complessa, fragile.

Per anni e anni nelle Regie Scuole Italiote capolavori del livello delle Operette morali, con contenuti che ancora oggi sono stupefacenti e urticanti, son state fatte passare per produzione minore da non prendere troppo sul serio. Per anni e anni poesie “politiche” come la Ginestra o I nuovi credenti sono state gabellate da prova infelice (la malattia, la depressione, si sa). Per anni e anni quell’analisi spietata del Risorgimento nazionale che è rappresentata dai Paralipomeni della Batracomiomachia è stata bandita da ogni lettura scolastica e universitaria, nel timore che qualcuno si accorgesse che, ancor prima di Porta Pia, c’era qualcuno che si era già accorto di quello che sarebbe stata quell’Italietta sabauda unita in punta di baionetta e stati d’assedio. Pensi un po’. Altro che gobbo e depresso. Ma adesso va meglio, è stata dura, è costata l’impegno e la lotta di tanti studiosi, ma infine nelle scuole da qualche tempo (20 o 30 anni circa) i nostri studenti possono scoprire lo sbigottimento della fine e del male, la solitudine siderale dell’uomo e il suo bisogno di essere solidale, leggendo il Cantico del gallo silvestre, o riflettendo sulla “social catena”.

Io la ringrazio, caro dottore, del suo lavoro, ma, mi creda, ora che le sue conclusioni le ha raggiunte, inizi il lavoro vero, che di come sia morto il Contino poco cale: inizi con tutti noi a curare la malattia che affligge la sua opera e che non è costituita soltanto dalla noncuranza, ma da questa immonda superficialità, da questa violenza avida di linciaggio, da questo servilismo diffuso, da quest’ignoranza tronfia e soddisfatta che sta annegando quanto di ancora umano, civile e progressivo ci era rimasto tra le dita. Usi Leopardi, piuttosto di visitarlo in cerca di una malattia, ché, mi creda, i veri malati siamo noi. Lui è la cura.

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