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Supercoppa in Arabia, non serviva una partita per iniziare a indignarsi

Verrà ricordata come la partita della discordia quella che si giocherà a Jedda, in Arabia Saudita, mercoledì 16 gennaio: il match di Supercoppa tra Juventus e Milan che ormai da diverse settimane sta facendo tanto parlare di sé. Sono molteplici le polemiche nate attorno a questo caso, soprattutto dopo la diffusione della Lega Calcio di un comunicato stampa in cui veniva dichiarato che le donne non avrebbero potuto accedere allo stadio liberamente, ma solo in un settore misto, riservato alle famiglie. Da Jedda assicurano invece che non ci saranno discriminazioni. Le accuse mosse contro la scelta della Lega di giocare in un Paese come l’Arabia Saudita non riguardano solo le discriminazioni nei confronti delle donne, ma soprattutto verso le considerevoli violazioni dei diritti umani che il Paese continua a perpetrare nonostante si voglia dare quell’immagine di cambiamento. Un’immagine nuova, diversa, in parte arrestata dalla vicenda del giornalista saudita Jamal Khashoggi, ucciso lo scorso ottobre nel consolato di Istanbul, (pare) proprio per mano saudita.

Dunque, se da una parte qualcuno vuol farci credere che in Arabia Saudita le cose stiano cambiando seppur lentamente, dall’altra c’è chi come me non può far finta che tutto vada bene. Per questo motivo mercoledì 16 gennaio alle ore 10 vi sarà un presidio davanti l’ambasciata dell’Arabia Saudita di Roma organizzato da Usigrai, Fnsi, Odg e Amnesty. Si manifesta contro la scelta della Lega Calcio di giocare la partita proprio a Jedda, un match che verrà trasmesso dalla Rai, la tv di Stato – è sempre bene ricordarlo -, alle ore 18,30.

Non avevamo bisogno certo di una partita di calcio per venire a conoscenza delle considerevoli violazioni dei diritti umani che si consumano in Arabia Saudita: ma questa partita ha portato alla luce un’altra tristissima realtà che non tutti conoscevano. Da anni il nostro Belpaese produce armi, bombe, che vengono poi acquistate in Arabia Saudita per essere utilizzate nel conflitto in Yemen. Proprio nella nostra bellissima Sardegna, in quella terra meravigliosa che il mondo ci invidia per il mare, i colori, il cibo e i profumi, esiste un paesino, Domusnovas, dove vivono circa 6mila persone, alcune delle quali, oltre un centinaio, lavorano per la Rwm. La Rwm è un’azienda di proprietà della tedesca Rheinmetall Defence, che produce ed esporta armi nonostante la legge, la 185/90, ne proibisca la vendita a Paesi in guerra come l’Arabia Saudita. Poco tempo fa era uscita addirittura la notizia di un ampliamento della fabbrica con la costruzione di due nuovi reparti produttivi.

Per avere maggiori informazioni su quello che accade in Sardegna da anni e che sta accadendo soprattutto in questi giorni, dopo le polemiche scoppiate sul caso della Supercoppa, ho contattato direttamente il sindaco del comune di Cagliari Massimo Zedda e la consigliera del Pd Rita Polo, che ha fatto luce sulla questione tenendo ben a mente, oltre alle serie e gravissime problematiche della produzione di armi, anche quelli che sono i diritti dei lavoratori della Rwm.

Rita Polo mi ha illustrato che si è svolta proprio la scorsa settimana in comune a Cagliari un incontro sulla questione bombe prodotte in Sardegna ed esportate verso l’Arabia Saudita; incontro promosso dal Comitato riconversione Rwm, con la collaborazione di Arci, Tavola sarda per la pace, Italia nostra e Confederazione sindacale sarda. Ed era stato da poco approvato a maggioranza un ordine del giorno dal titolo Stop bombe per la guerra in Yemen e promozione per una riconversione e sviluppo dell’economia e un lavoro dignitoso. “Il documento – mi spiega – sancisce una volta di più l’assoluta contrarietà dell’Assemblea civica alla fabbricazione, in tutto il territorio italiano, di armi e materiale bellico destinato a Paesi in conflitto, impegnando sindaco e giunta a promuovere una serie di azioni e progetti per contribuire alla realizzazione di concrete e effettive politiche di disarmo e di pace salvaguardando i posti di lavoro”.

In effetti non deve essere facile dire “chiudete una fabbrica” senza tener conto che da quella chiusura molte famiglie andrebbero a perdere il sostentamento. “Sicuramente – incalza la consigliera – ci sentiamo responsabili di quello che accade in Yemen e non possiamo rimanere indifferenti di fronte alle immagini che ci arrivano. La Sardegna in questo particolare momento si sente ‘vittima e complice allo stesso tempo’. La nostra è una regione che ha molto da offrire e per questo auspichiamo uno sviluppo economico in vari settori. Anche per questo è stato costituito un Comitato per la Riconversione della Rwm composto da oltre 20 aggregazioni locali, nazionali e internazionali, accomunate dallo scopo di promuovere la riconversione al civile di tutti i posti di lavoro dello stabilimento Rwm”.

A queste preoccupazioni si associano quelle dei vescovi della Sardegna, che nel messaggio episcopale del 27 dicembre si focalizzano sulla mancanza di lavoro nella loro terra, una delle più povere del Paese, che per garantire uno stipendio sicuro in mancanza di alternative dignitose permette agli operai della Domusnovas di subire l’inaccettabile offerta di produzione di armi. C’è dunque la necessità di fermare l’esportazione del materiale bellico verso i Paesi in guerra e soprattutto di riconvertire l’economia del territorio in maniera sostenibile garantendo nuovi posti di lavoro. A questo punto c’è da chiedersi: ma non dovrebbe in tutto questo farsi carico anche lo Stato italiano?