Il professore torna ad attaccare l'inchiesta di Palermo, culminata con pesanti condanne in primo grado. E lo fa dalle stesse colonne utilizzate in fase d'indagine preliminare: quelle del Foglio. Se nel 2012 l'intera indagine veniva derubricata dall'autorevole docente di diritto penale a "boiata pazzesca", questa volta il lungo articolo del giurista ha un destinatario diretto contenuto già nel titolo: il pm che rappresentava l'accusa al processo
Prima l’aveva definita “una boiata pazzesca“. Poi se l’era presa con i giudici popolari perché “le questioni giuridiche emergenti” erano “troppo sottili per la componente laica della corte d’Assise”. Insomma: erano digiuni di diritto. Adesso se la prende con la magistratura penale, colpevole di avere “una sorta di pregiudizio mafiocentrico o criminocentrico nell’interpretare la storia politica”. Giovanni Fiandaca torna ad attaccare l’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. E lo fa dalle stesse colonne utilizzate in fase d’indagine preliminare: quelle del Foglio. Se nel 2012 l’intera inchiesta veniva derubricata dall’autorevole docente di diritto penale a “boiata pazzesca”, questa volta il lungo articolo del giurista ha un destinatario diretto contenuto già nel titolo: “Caro Di Matteo, no: la storia nazionale non è storia criminale“.
Di Matteo, ovviamente, è il sostituto procuratore del processo che nell’aprile scorso si è concluso con pesanti condanne. Una sentenza di primo grado, certo, che però Fiandaca continua a contestare. Se dopo la decisione della corte d’Assise, il giurista aveva detto di vedere “più un’assoluzione” adesso se la prende direttamente con il pm simbolo della Trattativa. La sua colpa? “La encomiastica sintesi divulgativa” che ha fatto dell’inchiesta nel libro intervista Il patto sporco. In pratica per Fiandaca, un magistrato che riesce a vincere – contro tutti i pronostici – il più contestato e delicato processo degli ultimi anni, dovrebbe rilasciare dichiarazioni per massacrare la sua stessa tesi d’accusa.
Più articolate le critiche dell’attuale garante dei detenuti della Regione Siciliana al giudice “oltre 5200 pagine della motivazione”. “Quelle dedicate a questioni di stretto diritto ammontano a poche decine: a prevalere è, di gran lunga, lo spazio riservato per un verso all’evoluzione storica della mafia siciliana nel corso degli ultimi decenni e, per altro verso, alla ricostruzione – come si legge nella sentenza – di ‘vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i nostri giorni'”, scrive l’ex candidato del Pd alle Europee del 2014.
In realtà le motivazioni del giudice Alfredo Montalto elencano fatti, incrociano testimonianze, fatti, ricostruzione che ovviamente facevano parte di “vicende mai del tutto chiarite”. Ma che era fondamentale ricostruire per arrivare a provare quello che è l’oggetto del processo. Che evidentemente continua a sfuggire allo stesso Fiandaca. “A dispetto di ogni sforzo dimostrativo da parte della Corte d’assise palermitana, la tesi di un patto ordito da vertici istituzionali rimane un’ipotesi tutt’altro che dimostrata con quel rigore probatorio che ci si dovrebbe attendere da un organo giurisdizionale: in più punti la ricostruzione storica – come peraltro gli stessi giudici ammettono – si basa infatti soltanto su convergenze di elementi, deduzioni logiche o ipotesi dotate di un certo grado di plausibilità, per cui rimane in ogni caso aperta la possibilità di narrazioni alternative”.
Ma il processo di Palermo non ha condannato gli imputati – carabinieri, politici e boss – per il “patto” Stato-mafia, cioè per essersi accordati tra loro. Marcello Dell’Utri, i carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno, i mafiosi Leoluca Bagarella, Antonino Cinà sono stati condannati per violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. Fatti specifici dunque, puniti da un reato difficile da dimostrare ma che secondo la corte d’Assise è stato commesso sulla base delle prove raccolte dalla procura.
Di tutto questo, però, ancora una volta Fiandaca non parla. Preferisce definire quello dei giudici siciliani come “un assai ambizioso impegno storiografico“. Quello della commistione tra storia e giustizia è un vero cruccio per il professore. Che denuncia “un approccio storiografico di tipo criminalizzante: cioè una inclinazione pregiudiziale a rileggere la storia e la politica del biennio 1992-94 in una ottica strumentalmente volta ad accreditare l’ipotesi accusatoria di un turpe patto tra vertici politico -istituzionali e vertici mafiosi per restaurare una compromissoria convivenza tra Cosa nostra e lo Stato“. Niente di tutto questo, come detto, è previsto dalla violenza o minaccia a un corpo politico o istituzionale dello Stato.
Per quanto riguarda invece la “convivenza tra Cosa nostra e lo Stato”, non c’è nulla di storiografico nelle parole utilizzate dai giudici a proposito di un evento databile nel giugno – luglio 1994, quando “Dell’Utri ebbe a riferire a Vittorio Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia”. Non è un “approccio di tipo criminalizzante” ma il racconto – riscontrato dai giudici del processo di primo grado – del pentito Salvatore Cucuzza: “Per quanto riguardava il 416 bis, per quanto riguarda l’arresto sul 416 bis c ‘era stata una piccola modifica…”. E sempre su quella convivenza impossibile, citata da Fiandaca, vale da pena di ricordare che “Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione che, come si detto, anche secondo la Corte di Cassazione, erano inevitabilmente insiti negli approcci di Vittorio Mangano e che, altrettanto inevitabilmente per la caratura criminale dei richiedenti, portavano seco l’implicita minaccia di ritorsioni, d’altra parte, già espressamente prospettata, come si è visto sopra, durante la precedente campagna elettorale”. Insomma: l’allora presidente del Consiglio era sotto la minaccia di Cosa nostra (al quale peraltro ha versato denaro almeno fino al dicembre del 1994). Una minaccia di cui era messaggero il suo braccio destro Dell’Utri. Autore, sempre secondo i giudici, di anticipazioni al boss Mangano su leggi che il governo voleva varare per “svuotare” alcuni strumenti di lotta alla mafia.
Fiandaca, però, non riesce a convincersi. E tra le sue argomentazioni cita la mancanza di qualsiasi riferimento alla Trattativa nella “storiografia più recente e qualificata sugli anni dal dopoguerra ad oggi”, dove “mai viene presa in considerazione, o soltanto affacciata l’ipotesi che la transizione dalla prima alla seconda Repubblica sia stata fortemente condizionata da occulte alleanze criminali col potere mafioso. Miopia della storiografia professionale o sopravvalutazione della mafia da parte dei giudici -storici?”, si chiede il giurista. Che protende ovviamente per questa seconda ipotesi. Per Fiandaca, infatti, esiste tra i magistrati “una sorta di pregiudizio ‘mafiocentrico’ o ‘criminocentrico’ nell’ interpretare la storia politica, con la conseguente tentazione di appiattirla sulla dimensione criminale”. Il fatto che quella dimensione criminale esista e che l’interpretazione mafiocentrica possa – purtroppo – a volte corrispondere alla realtà per il professore continua a non essere un opzione.