Ha ragione Vittorio Sgarbi: Palazzo dei Diamanti, primo palazzo del Rinascimento in Italia, capolavoro di Biagio Rossetti, non si tocca. La sua petizione contro il progetto che si è aggiudicato il concorso internazionale per l’ampliamento degli spazi espositivi di Palazzo dei Diamanti (del raggruppamento “3ti progetti”) ha prodotto delle reazioni dicotomiche e contrapposte. Talvolta di aperta idiosincrasia. È singolare che siano proprio gli architetti a blindare la procedura del concorso, attribuendogli un valore inemendabile e dogmatico, persino superiore al contesto in cui si interviene, senza mai entrare nel merito dell’opportunità di una simile iniziativa.
Ed è bizzarro che ad accreditare la legittimità dell’ampliamento nel nome della “modernità” e contro la “mummificazione dei centri storici” (sic!) siano gli stessi architetti, che non permetterebbero – giustamente – che, nel nome della “riqualificazione” e della “fruibilità”, sia “addizionata“ l’Accademia della Scherma di Luigi Moretti, ampliato il Palazzo dei Congressi di Adalberto Libera, sopraelevata la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni. Un monumento – rinascimentale o moderno – è un edificio sempre concluso e compiuto. Un testo unico che va tutelato nella sua interezza e integrità, inclusa la sua percezione visiva: non esistono prospetti privilegiati da preservare e altri, secondari, dove poter “addizionare” edifici, sebbene “dialoganti”.
È quindi davvero sorprendente che la Soprintendenza, che notoriamente dovrebbe vigilare e garantire la tutela del patrimonio senza valutare altre alternative, abbia dato il via libera a un concorso che prevede l’ampliamento di un palazzo rinascimentale su segnalazione dell’attuale direttrice incaricata dal sindaco. Maria Luisa Pacelli, funzionario culturale e non dirigente, laurea in Lettere e Filosofia, definisce il Palazzo dei Diamanti “un marchio di qualità”. E ritenendo “la struttura” non più adeguata (“mancano servizi di base come spazi per la didattica, un punto ristoro, un percorso coperto, servizi igienici adeguati e altro”), ha intrapreso una serie di iniziative che hanno portato agli esiti del concorso che conosciamo.
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Foto del rendering tratte dal sito ufficiale di Palazzo dei Diamanti
L’ampliamento, del costo di 3,5 milioni di euro, finanziati con i fondi del Ducato, prevede una superficie di 660 metri quadri completa di spazio espositivo, che può essere riconfigurato a seconda delle esigenze come sala per conferenze, spazio eventi o per workshop. Ma per la direttrice Pacelli “non si tratta di un completamento del palazzo, ma di un’addizione che ne migliorerà la fruizione”, sebbene sia smentita dalla stessa relazione del progetto: “Il nuovo edificio si distacca dal muro che chiude il cortile cinquecentesco generando a sua volta un ulteriore cortile”. Un intervento, quindi, che altera la percezione dello spazio originario. Meglio recuperare, piuttosto, uno degli edifici monumentali di grande pregio non utilizzati presenti lì vicino, come Palazzo Prosperi Sacrati, invece che destinare 3,5 milioni di euro, per un’“addizione”: così suggeriscono Sgarbi e Italia Nostra.
L’esito del concorso di Palazzo dei Diamanti ricorda il controverso progetto del concorso della loggia per l’uscita dei Nuovi Uffizi vinto nel 1998 degli architetti Arata Isozaki e Andrea Maffei, il cui completamento era stato previsto per il 2003; ma i lavori non sono mai iniziati. L’allora consigliere comunale dell’Udc, Mario Razzanelli, commissionò un sondaggio tra i cittadini: il 66% dei fiorentini era contrario all’intervento. Probabilmente anche oggi non sarebbe necessaria una rilevazione statistica per capire che i cittadini non vogliono che si intervenga nei centri storici e che i soldi pubblici andrebbero spesi per recuperare altre parti delle città.
La sempre crescente diffidenza verso certa architettura trova ragione nelle parole di Franco La Cecla (Contro l’Architettura): “Mai come adesso l’architettura è di moda (…) Eppure mai come adesso l’architettura è lontana dall’interesse pubblico: incide poco e male sul miglioramento della vita della gente. (…) Questo accade perché l’architettura è diventata un gioco autoreferenziale”. Con la complicità della politica.