Il decreto dignità, divenuto legge dello Stato, prevede, tra le altre cose, il divieto totale della pubblicità relativa al gioco d’azzardo entro giugno 2019. Quali effetti avrà questo interdetto? Quali categorie di cittadini ne avranno benefici e quali invece si mostreranno refrattarie a esso? Quando si parla di dipendenza patologica dal gioco si fa riferimento a un fenomeno che ha conosciuto una rapida e capillare diffusione in questo tempo segnato da una forte crisi economica. Ogni periodo recessivo registra infatti un aumento esponenziale dell’affido della propria sorte alle slot machine o a similari rimedi effimeri, che offrono un’illusoria e a volte letale scappatoia dal cul de sac nel quale una generazione intera si trova costretta.

Un governo che sposi una linea “no slot” intransigente ha indubbiamente forti possibilità di riuscire nell’intento di salvaguardare l’incolumità psicofisica dei cittadini. Il legislatore ha il dovere di oscurare agli occhi di una generazione precaria il facile accesso a quei luoghi che Luigi Pirandello definiva “mattatoi per le povere bestie”. Quest’azione legislativa inciderà dunque efficacemente nella salvaguardia delle categorie più a rischio, composte da coloro i quali hanno definitivamente perso la speranza di poter rientrare nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali divelte dalla crisi (uomini licenzianti nel mezzo della vita, studenti ai quali la porta del lavoro viene ripetutamente chiusa in faccia, pensionati), togliendo dal loro orizzonte insegne luccicanti di riscatto sociale che in realtà introducono ad abissi di solitudine dostoevskijani. È dunque una buona legge, con un amplissimo raggio di applicazione.

Per contro, lo Stato – e qua è la clinica a insegnarlo – non può porre alcun freno a condotte individuali che non sono rifugi per vite disperate, bensì scelte esistenziali lucide e consapevoli quali quelle dei giocatori incalliti, che fanno dell’azzardo la passione alla quale votarsi integralmente. Occorre infatti operare una distinzione tra chi cade nelle maglie del gioco ma al contempo offre spiragli di uscita e guarigione (la quasi totalità dei “ludopatici”) e chi invece fa dell’azzardo un elemento strutturale del proprio essere, i cosiddetti “inguaribili”, per i quali qualsiasi approccio di tipo “disintossicante” ha dato esito negativo. Il giocatore incallito dice in seduta: “Giocare per me è meglio della vita. La vita è una preparazione al gioco”.

Proibizione e sanzione sono elementi centrali nella loro vita. Essi sono irrimediabilmente attratti da tutte quelle zone sottoposte a veto sociale. Sapere che su quel tavolo verde incombe un interdetto lo rende ai loro occhi drammaticamente appetibile. Se questi luoghi non fossero clandestini, perderebbero quel sale i cui granelli guidano i frequentatori sino alle bische illegali più nascoste, che proliferano proprio laddove il bando emanato dalla legge è più forte. Nel film Mississippi Grind si racconta di un giocatore che dapprima chiede di farsi bandire da tutti i casinò degli Usa grazie a una legge che prevede l’autodenuncia per dipendenza da gioco. Dopo essere stato rifiutato da diverse sale, dopo cioè aver messo alla prova la tenuta di quella legge, si traveste riuscendo a gabbare i controllori e si risiede davanti al tavolo verde.

Il legislatore non può infatti sapere che uno dei desideri primari dell’essere umano è cercare la consunzione. E ciò non avviene che rarissime volte in maniera eclatante e subitanea. Più spesso questa cupio dissolvi prende la forma regolata di quella che siamo soliti chiamare dipendenza: drogarsi, bere, giocare d’azzardo, fumare pesante, lanciarsi con l’auto di notte oltre il semaforo rosso. Lo psicoanalista Francois Leguil dice: “Proprio perché fa male al suo corpo berrà di più, ed è ciò che ha di umano. È lì che i medici si sbagliano: ciò che l’uomo ha di umano sono i suoi eccessi, il modo in cui nuoce alla salute”.

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