Che ci fanno insieme Kevin Wendell Crumb (James McAvoy) di Split (2016), David Dunn (Bruce Willis) e l’Elijah Price (Samuel L. Jackson) di Unbreakable (2000)? Semplice: compongono il nuovo imperdibile film di M. Night Shyamalan. In Glass vengono infatti spiegate tutta l’ambiguità umana, le potenzialità soprannaturali e la (pardon) fragilità fisica dei supereroi che i blockbuster statunitensi da superhero movies non ci avevano fino ad oggi ancora mostrato. Attenzione però. Glass non è il filmetto programmaticamente anti Marvel o anti DC Comics. Il discorso dell’autore de Il sesto senso non riguarda un antagonismo industriale e morale tra produzioni hollywoodiane come fosse una battaglia ideologica all’europea. Il prode Shyamalan ha creato semplicemente un immaginario parallelo e plausibile, low budget (produce la Blumhouse con “solo” 20 milioni di dollari) e low profile, di una versione alternativa della vecchia vulgata appassionata del fumetto da supereroi che diventa cinecom.
DOVE ERAVAMO RIMASTI? Dunn era il sopravvissuto al terrificante incidente ferroviario di Unbreakable. Personaggio che scopriva improvvisamente di essere vivo solo perché indistruttibile (ma non immortale). L’idea gliel’aveva inculcata proprio Elijah, affetto da una malattia rarissima alle ossa che lo costringeva sulla sedie a rotelle. Alla fine di Unbreakable Dunn faceva arrestare Elijah, facendolo rinchiudere in un manicomio, anche se la consapevolezza dei suoi superpoteri non gli era più ignota. Kevin Wendell Crumb era invece il tizio di Split affetto da disturbo dissociativo dell’identità, scisso continuamente tra 24 schizoidi e pericolosissimi personaggi/personalità, che aveva rapito e segregato tre ragazzine. Una delle quali, nel rocambolesco finale, sopravviveva, come del resto lo stesso Kevin in giro tra le gabbie dello zoo di Philadelphia. Nei minuti finali di Split riconoscevamo anche Dunn, seduto ad un bancone di un bar, seguire con lo sguardo gli ultimi accadimenti della vicenda di Kevin. Glass riparte quindi da qui. Fungendo da sequel di Unbreakable e Split. Aggiungendo una locomotiva ai due vagoncini che parevano correre comunque da soli. E se i primi due film della trilogia avevano un andamento da thriller e contenevano qualche traccia di superpoteri e supereroi (il classico e soprannaturale dubbio instillato da Shyamalan nei suoi diversi lavori – si veda un bistrattatissimo Lady in the water, da noi amatissimo), qui le proporzioni degli ingredienti vengono ribaltate: tracce di thriller e struttura da superhero movies.
ANCHE I SUPEREROI NEL LORO PICCOLO HANNO PUNTI DEBOLI E FORSE MUOIONO (NO SPOILER). Ecco allora Dunn, con figliolo adulto all’altro capo delle auricolari, diventato “il Sorvegliante”, mantello nero e capellino, mettersi privatamente sulle tracce di Kevin che, questa volta, ha rapito e incatenato in un decrepito isolato fabbricato industriale quattro cheerleader. Dunn salva le ragazze, inizia uno spietato duello a suon di botte con Kevin, ma i due vengono fermati da un dispiegamento delle forze di polizia capitanate da una psicologa (Sarah Poulson). Non preoccupatevi però: siamo a nemmeno venti minuti di film. Shyamalan del resto è celebre per disseminare twist e capovolgimenti di fronte in modo anticonvenzionale nei suoi lavori. La dottoressa è infatti riuscita a scoprire i punti deboli – “la criptonite” – per l’illimitatamente forzuto Dunn (l’acqua) e per l’altrettanto coriaceo e schizzato Kevin (un flash di luce accecante). I due vengono così rinchiusi nell’istituto dove si trova da tempo proprio Elijah, che pur rimanendo immobile per la sua malattia riesce a fare cose con la mente davvero incredibili. La psicologa avrà 72 ore per studiarli e convincerli di non avere nessun superpotere. “Vi siete convinti di essere sovraumani”, spiega la donna ai tre riuniti in un salone dallo sfondo rosa dopo diverse scaramucce interne, ma la realtà – suggerisce lei – è un’altra cosa. Peccato che Elijah stia già studiando l’evasione di tutti e tre, organizzando una sorta di showdown spettacolare in cima all’Osaka Tower di Philadelphia per mostrare al mondo la “stoffa” dei tre.
LA SOLITUDINE DEI SUPEREROI E IL CINECOMIC CHE NON T’ASPETTI. Solo che c’è un piccolo particolare. Anzi parecchi dettagli dissonanti rispetto ai cinecomic tradizionali. In Glass tutto è apparecchiato come fossimo davvero in attesa di uno scontro tra titanici supereroi, ma il confronto non arriva mai. Shyamalan apre parentesi, rallenta il ritmo, dissemina un lungo blocco d’interni e di un esterno/piazzale ridotto a poche centinaia di metri di set, di punti di vista angusti e inattesi (le due donne delle pulizie nel camioncino), di osservazioni laterali, di punti di fuga impossibili, per non far giungere il film dove di solito Thor o Iron man banchettano per eterne mezz’ore. In Glass ogni supereroe, oltretutto, ha un aiutante/badante che lo può salvare dalla reazione della psicologa e di chi misteriosamente le sta dietro: Dunn con il figlio; Kevin con la ragazzina liberata in Split, ora legata alla sorte del suo ex carceriere; Elijah con sua madre. Ma il racconto non prende mai quella china. Il terzetto mostra le sue potenzialità, ma mette in evidenza anche i suoi probabili limiti e debolezze. In questo ribaltando una sicumera filosofica artefatta e superficiale partita dall’idea di mancanza di senso della morte preconizzata in Matrix e spiattellata con barbara puntualità da un qualsiasi capitolo degli Avengers o X-Men. Anche i supereroi possono cedere alla normalità del quotidiano fatta di ciò che “umanamente” sappiamo ancora riconoscere come azioni o gesti di difesa dall’ipotetico sovrannaturale (un’arma da fuoco, la carica violenta della polizia, ad esempio). Insomma, Glass è un discorso sull’appassionata fedeltà all’immaginario fumettistico dei supereroi con l’assoluta certezza che negli strumenti del reale esistono, ahinoi, ostacoli o impedimenti che possono cancellare dalla faccia della terra la loro eccezionalità.
SHYAMALAN GENIO INCOMPRESO. Tredicesimo film di Shyamalan (i primi due – Praying with anger e Ad occhi aperti – sarebbe oltretutto meglio dimenticarli), Glass è stato sbertucciato da parecchia critica americana e solo per questo dovremmo amarlo incondizionatamente. Anche perché il regista di origine indiana è uno dei pochi realizzatori di blockbuster che sa mescolare abilmente tutti i possibili aspetti della messa in scena con eguale cura dando ai suoi film quell’omogeneità autoriale in atmosfere e contenuti. Qui in IB si va dall’ipnotica commistione tra silenzi e sguardi dei protagonisti con il soundtrack di West Dylan Thordson, alle performance pazzesche degli attori (si va dall’ipercinetico McAvoy, passando dal flemmatico ma roccioso Willis, fino all’immobile e sinistro Jackson), passando per uno sguardo factotum per nulla manicheo, sornione, mai del tutto liberatorio, in modo che il rilancio ovvio, sincero, normale per un ulteriore sequel sbocci per attaccamento al genio creatore più che al franchise industriale. Ah, per intenderci, e magari non vi piaceranno, ma i personaggi da fumetto dei suoi film, Shyamalan (breve apparizione in scena, come sempre, nel negozio di serramenti dei Dunn) se li è creati da solo, senza bisogno di San Stan Lee. Beh, complimenti anche solo