Debolezza.
Non riesco a trovare altra parola per descrivere il video del ministro Bonafede che celebra l’arresto di Cesare Battisti. Con tutto il corollario di considerazioni, non solo il video è debolezza. Il ministro è debole, il governo lo è. I suoi protagonisti lo sono. Lo Stato, ahinoi, ancor di più. Per non dire della società, intesa come il corpaccione che racchiude noi tutti all’interno di regole e diritti comuni.
Il fatto è che quel video è debole indipendentemente dal suo contenuto, dalla sua realizzazione, dall’apprezzarne il messaggio o meno. È debole perché celebra ad alta voce ciò che dovrebbe essere un dovere. Perché descrive come un successo un risarcimento tardivo, per non dire postumo, a chi è vittima. Perché, soprattutto, ancora una volta aspira a separare lo “ieri” dall’“oggi”, il tempo degli uomini corrotti da quello dei forti, duri e puri, integerrimi. Senza sapere – per presunzione o ignoranza – che l’uomo è sempre lo stesso.
Tutto, nella politica che viviamo in questi anni, è fatto con questo intento. Ridicolizzare il passato, incassare nel presente il massimo consenso senza investire un grammo di speranza in un domani che non sia solo nostro. Del resto, dietro l’angolo ci sono sempre elezioni da vincere e le politiche a lungo termine non pagano in termini di consenso. Perché parlare del futuro del mondo a chi non fa figli nemmeno con la fantasia?
Le vittorie fulminanti invece sì. I simboli negativi come Battisti, bruciati pubblicamente per assaporare una vampata di successo. L’assalto alla Bastiglia di Strasburgo come gli 80 euro e il reddito di cittadinanza, ma a cittadinanze variabili. Simboli del male bruciati, simboli di Stato sfruttati per nascondere la propria pochezza. La giacca della polizia indossata da Salvini e quella della penitenziaria di Bonafede, in fondo, stanno lì a tutelarli dal loro decadimento. Lo scudo delle istituzioni, quotidianamente svilite nelle loro forme più nobili e altruiste, indossato per mascherare l’assenza di spessore. E proteggere dalla mancanza di calore elettorale che, inevitabilmente, toccherà anche a loro.
Bonafede come Renzi e Boschi, Di Maio o Di Battista sono tutti personaggi di una stessa epoca: perdibili, sacrificabili come gli artisti dei talent show. Hanno davanti – o alle spalle – una breve stagione di successo. Salvini è un poco diverso. Nel suo essere camaleonte ha ancora qualche panno da indossare più degli altri, ma il suo lato caricaturale prima o poi lo travolgerà.
Quello che cambia è il modo di farsi travolgere: i 5 stelle in fila come i lemming (uno vale uno), la Lega, come Forza Italia, con il suo capitano davanti (uno vale tutti), il Pd come la setta di Waco (nessuno vale un cazzo).
E tuttavia, per quanto vi sia inspiegabile, nel prevedere la loro futura eclissi non trovo alcuna gioia. Perché nella loro debolezza vedo la tragedia comune a tutti quanti noi. Che no, non siamo migliori di loro. Nella politica come nel mondo reale il modello assertivo è l’unico rimasto: capitalizzare subito ché domani chissà. Anche questo mio post, oltre alle mille critiche che mi muoverete senza leggerlo, soffre – sappiate – degli stessi difetti: pensare velocemente, scrivere velocemente, approfondire meno, urlare di più per farti sentire nel poco tempo che hai a disposizione. Perché domani ci saranno altre emergenze di cui dolersi.
Ma io vi frego e sfrutto avvenimenti diversi per dire sempre la stessa cosa: l’epoca del pensiero debole e dell’eterno presente ci lascia tutti indietro. Me come Bonafede, nella nostra fallimentare continua necessità di piacere (piacerci?). Le nostre idee sopravvivono su Twitter giusto il tempo di essere soppiantate da altre. Così le nostre foto, le nostre memorie e i nostri talenti.
Ma se siete arrivati fino a qui e condividete mezza parola di quello che ho scritto, avrete come me la sensazione che questa considerazione, strappata a una ruota del criceto in perenne rotazione, non può limitarsi al cahier de doléances esistenziale.
Potrei chiuderla con Calvino e cavarmela, ma non mi basterebbe. Per una volta mi va di dire che queste singole debolezze, rubo invece a Saramago, possono essere sommate e diventare una forza nuova. Che il problema, semmai, è ristabilire il diritto di affermare la propria debolezza.
Quelle che un tempo sarebbero state chiamate avanguardie, del resto, ci sono riuscite. Lo ha fatto la moda, lo hanno fatto la letteratura e l’arte, creando stili e movimenti, talvolta strumentali al successo, ma che hanno messo in evidenza il difetto e lo hanno fatto pregio. Pensate al realismo isterico di Franzen, al corpo di Marina Abramovic, al cinema di Alfonso Cuaron: agli individui che si sgretolano. Non per sparire, ma per fondersi assieme.
Sto divagando? Non credo: guardate le implicazioni sul femminismo che la fragilità ha scatenato nel caso del nuovo spot Gillette. Non è un esercizio esistenziale, è politica: sono debole, diverso, chi altri lo è e vuole fare un pezzo di strada con me? Il mio mezzo cuore vuoto e il vostro. Non fanno qualcosa di meglio del mio mezzo cuore da solo?
Niente di nuovo: la grande epopea della debolezza di un popolo intero è raccontata da John Steinbeck in Furore. Lì trovate la migliore descrizione della differenza tra l’io e il noi. E cosa significhi alienare il noi in tanti piccoli io provvisti di meschini traguardi da raggiungere. “Io” e “noi” sono parole potenti. Ma mentre “io” alla fine muore sempre, “noi” è l’unica cosa che sopravvive. Per questo da sempre gli io più fragili e prepotenti gli danno la caccia.
In fondo, ministro Bonafede, ma quanto sarebbe più figo se facesse il suo mestiere per noi, invece che per sé?