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Sovranità monetaria, abbiamo forse frainteso i trattati europei?

In un momento storico in cui la possibilità di un Paese di fare investimenti pubblici e spesa sociale è appesa al filo dei decimali di punto e al giudizio di una Commissione straniera, forse val la pena mettere in dubbio ciò che abbiamo sempre dato per scontato. Per esempio, il fatto di aver perso la sovranità monetaria. Questa convinzione è ormai divenuta –  per usare una metafora più che appropriata –  moneta corrente sia nel campo delle forze pro establishment, sia nel campo dei cosiddetti populisti, o sovranisti che dir si voglia. Ma è proprio vero? Oppure, sul piano squisitamente giuridico, è sostenibile la tesi contraria? L’articolo 1 della Costituzione recita inequivocabilmente che la sovranità appartiene al popolo. Essa non è mai cedibile, al massimo “limitabile” in una ben definita ipotesi contemplata dall’articolo 11. Di più: la “forma repubblicana dello Stato” (nell’alveo della quale, giuridicamente parlando, riposa anche la sovranità monetaria) non è suscettibile neppure di riforma costituzionale, come statuito dall’articolo 139 della stessa Carta fondamentale.

E allora abbiamo frainteso i famosi trattati? Forse sì, forse siamo stati più realisti del re, come usa dire. In verità, l’articolo 3 del trattato di Lisbona (TFUE) attribuisce in via esclusiva alla UE la sola “politica monetaria” (le politiche fiscali e quelle economiche, infatti, sono ancora di pertinenza degli Stati). Ebbene, c’è una cospicua, e dirimente, differenza tra il concetto di “politica monetaria” e il concetto di “sovranità monetaria”. La politica monetaria, secondo le definizioni comunemente accettate, riguarda gli strumenti, gli obiettivi, gli interventi impiegati dalle banche centrali per regolare l’offerta di valuta, mentre la sovranità monetaria concerne il diritto esclusivo di uno Stato di battere moneta. La prima, in Europa, è esercitata in regime di monopolio dalla Banca Centrale Europea e riguarda solo le “banconote” a corso legale, dette euro. La seconda, invece, appartiene ancora a pieno titolo allo Stato italiano in assenza di una norma che disponga il contrario (norma certamente non introducibile attraverso un trattato internazionale, se non a pena di una patente incostituzionalità della stessa).

Addirittura, l’articolo 128 comma 2 del Trattato di Lisbona conserva in capo agli Stati il monopolio della produzione delle monete metalliche. Il conio di queste ultime, già oggi, e per espressa disposizione dei trattati, è di competenza precipua dei singoli Stati. Ad esempio, la Germania – di monete metalliche in euro (di vario importo) – ne ha immesse parecchi miliardi più di noi sul mercato. Tutto oro che cola, per usare un’altra calzante espressione proverbiale: che “nasce”, cioè, quale moneta emendata dal debito; a differenza di quanto avviene, invece, per le banconote partorite dalla Bce e poste poi a disposizione, o meglio “prestate”, al sistema bancario che, a sua volta, le “presta” agli Stati. Ma ci sono anche altri sistemi attraverso i quali il nostro governo può esercitare tale sovranità (mai) perduta. Per esempio la stampa di biglietti di Stato – non vietati dal trattato di Lisbona e da non confondersi con le banconote – impiegabili all’interno del territorio nazionale. Il notissimo brocardo latino (ubi lex voluit dixitubi noluit tacuit: dove la legge ha voluto ha detto, dove non ha voluto ha taciuto) dovrebbe farci serenamente concludere che tale prerogativa, già esercitata in passato (le famose Cinquecento lire di Moro), appartiene ancora, e ad ogni effetto, alla Repubblica Italiana.

Se invece volessimo rivendicare appieno un’altra declinazione della nostra sovranità, quella in materia fiscale, potremmo pensare ai certificati di credito fiscale: per mezzo di essi sarebbe possibile immettere nell’economia reale “liquidità alternativa” rispetto a quella gestita in regime monopolistico dalla Bce. “Liquidità Alternativa” ma, a tutti gli effetti, legale e tale da costituire un’autentica iniezione di ossigeno per l’economia reale del paese.

Alcune delle soluzioni su-enunciate sono da tempo dibattute nei convegni e note anche a molti dei consiglieri dell’attuale compagine governativa. E allora perché non vengono attuate? Forse perché il problema è più di natura psicologica che economica. Bisognerebbe preliminarmente svegliarsi dall’ipnosi collettiva, giuridicamente infondata, in cui siamo precipitati a furia di ripeterci, e di sentirci ripetere, che “abbiamo perso la sovranità monetaria”.

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