L’ultima volta raccontavo di come la riorganizzazione della vita post scolastica di Diletta fosse complessa. Questi mesi sono volati senza che io riuscissi a trovare il tempo neanche per riflettere sulle scelte che via via sono state indotte dalla necessità. Su questo punto vorrei appoggiare la più ampia attenzione. Se pure è vero che il concetto di libertà è astratto e non posso ambire a disegnarne io limiti e contenuti, dall’altro la mia modesta sensazione di scivolare sempre più un un pozzo nero è un fatto concreto.
Scuola elementare: otto ore di frequenza, obiettivi, assistenza esterna.
Scuola secondaria di primo grado: sei ore di frequenza, obiettivi, assistenza esterna invariata.
Scuola secondaria di secondo grado: quattro ore di frequenza, obiettivi, assistenza esterna invariata.
Fine scuola. Zero ore di frequenza. Il centro diurno non risponde alle esigenze di Diletta e così neanche la frequenza universitaria. Obiettivi sospesi. Assistenza esterna invariata. Traduzione: da settembre ho un aiuto la mattina. Poi il nulla. Andiamo a terapia, io porto, riprendo, accompagno, assisto, accudisco, coprendo servizi che non esistono e che ove esistono non sono adatti. Ricopro un ruolo che frustra me e mia figlia che a 20 anni vorrebbe un confronto diverso.
In questa fase di orientamento, la salute ci mette lo zampino e trascorriamo il mese di novembre in una continua corsa verso l’ospedale. Le deformità ossee e muscolari si tirano dietro la collocazione degli organi interni. Tutto riveste un quadro che si può al massimo gestire, o meglio provare a gestire, ma che di certo non ha soluzioni nette e non fa sperare in un miglioramento. La nostra vera battaglia è quella di rallentare le conseguenze della paralisi cerebrale e lo stiamo facendo ormai da 20 anni.
Tant’è che in ospedale non esiste un percorso appositamente creato. La brandina del pronto soccorso è come una tortura per una tetraplegica con rotoscoliosi e anche lussate. Le luci continue sono un elettroencefalogramma sempre attivo su una paziente affetta da epilessia. I farmaci somministrati per bocca durante problemi intestinali immensi diventa l’ennesima subdola tortura. Una sola persona dentro. Ci chiamiamo care giver. E così l’umanità del personale rimedia coperta, cuscino e poltroncina.
La stanchezza crolla tutta insieme, la paura prende il sopravvento e si impossessa anche della madre più coraggiosa. Personalmente la mia paura più grande sono i tubi: tracheotomie, stomie, peg. Alcuni genitori invece temono per le epilessie gravi, altri per i versamenti. Ognuno di noi cova una paura incontrollata che per anni convive nel fondo più blindato della nostra anima di genitori sconfitti dalla stanchezza, ma sempre più convinti e consapevoli che la battaglia debba essere condotta con fierezza e con orgoglio.
Ho stretto i denti, pensato a quanto la mia vita precedente fosse strana, lontana e vuota e sono andata avanti. Ho raccontato con sincerità ciò che provavo e ogni volta questo è ciò che più mi aiuta. Scopro emozioni così limpide, intense e vere che sento un motore ripartire dentro di me e un nuovo orizzonte accende i suoi colori per noi. Così è arrivato dicembre. Il brutto momento era superato ma le assistenti cambiano, le ore sono poche, le energie a volte mancano e così in pochi istanti era già Capodanno. Poi guardo dentro questi attimi e scopro che di cose ne abbiamo fatte: Diletta produce i suoi disegni e ha ormai deciso che i pennarelli sono i suoi preferiti e che un po’ di oro e brillantini non devono mancare.
Le giornate sono scandite da medicine, terapie e accanimento ma anche da musica, programmi tv, arte e disegno. Rimane l’ospedale inaccessibile fisicamente e psicologicamente. Rimangono le burocrazie assurde per avere un infermiere se occorre. Rimano indicazioni e linee guida disattese nel marasma dei Pronto Soccorso che diventano reparti dove in quei giorni ne ho viste che ne basterebbero per scrivere dieci romanzi. Una mia personale annotazione è che il sistema fallisce sotto gli occhi ormai spenti di tutti.
Una sorta di macabro fatalismo imperversa nei corridoi della vita e non solo dell’ospedale. Mi chiedo se sia stanchezza, consapevolezza o mancanza di forza per continuare a lottare. A volte mi chiedo anche contro chi e contra cosa si debba davvero lottare. Dopo 20 anni mi sento una persona completamente trasformata e se per certi verso sono indurita, per altri ho molte più emozioni forti dentro.
Il dopo di noi inizia a prendere forma come pensiero e capisco chi non trova ristoro nelle attuali finte opportunità, perché un care giver sa di cosa è fatta quella fragile esistenza e per questo sa anche che tutto sarà diverso in ogni caso e sarà diverso nel mentre quella fragilità aumenterà verso il declino. Allora non rimane che raccogliere i disegni di Diletta e riempirli di colore e di brillantini, perché quel singolo attimo basti per coprire il perché che per sempre rimarrà senza risposta.
Vivere l’attimo. Al momento credo sia la sola risposta possibile. Negli occhi ho gli sguardi di anziani soli in quei letti. Anziani senza famiglia. Ho in mente una giovanissima donna che perdeva il secondo occhio. Ho in mente la signora cardiopatica con un figlio alcolizzato. Ho in mente pezzi di vita che fanno male e che insegnano a dire: beh, poteva andare peggio. Da lì rinasce il sorriso. Da quella mano stretta, da quell’abbraccio regalato, da quelle parole di augurio sincero. La vita è bella anche quando fa tanto male.