Davanti al mistero della visione mi(s)tica ogni presunzione di interpretazione univoca appare vana e goffa. Per questo, intendo comporre questa breve riflessione in parte come un mosaico di citazioni di altri autori, consapevole di come le scintille di verità possano disseminarsi in differenti intuizioni.
Innanzitutto, ha ragione Davide D’Alessandro quando scrive sul Blog de Il Foglio: “Lavorare sul mito, coglierne ogni singolo dettaglio, giungere al centro (se esiste un centro) del suo significato, è arte riservata a pochi”. Tre menti anticonformiste (Ovidio, Giordano Bruno e Pierre Klossowski), di tempi e stature diverse, hanno riflettuto su uno dei miti più ambigui, feroci e illuminanti della tradizione greca: Atteone, sorpreso a spiare Diana, nuda durante un bagno in una grotta, viene dalla dea tramutato in cervo e quindi sbranato dai suoi stessi cani.
L’occasione di riflettere su questa potente e crudele allegoria è doppia: la chiusura della mostra alle Scuderie del Quirinale, Ovidio. Amori, miti e altre storie, esaltante dal punto di vista della ricchezza iconografica; la pubblicazione, il 24 Gennaio, dell’audiolibro Le Metamorfosi di Ovidio lette e tradotte da Vittorio Sermonti (Emons): un’interpretazione dotta e godibile delle mutazioni poetiche (nell’elegante definizione dello stesso coltissimo interprete) “scandite da scarti di timbro, aritmie, modulazioni, tracciate talora da un’ironia micidiale, sull’orlo talora del gossip; dove però ad ogni passo può spalancarsi il crepaccio della tragedia”.
Come scrive Chiara Babuin su minima&moralia, commentando l’esilio imposto da Agusto al poeta di Sulmona: “Gli storici ipotizzano che Ovidio potesse aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto, né voluto. Infatti l’accostamento con uno dei suoi personaggi, Atteone, anch’esso raccontato in mostra, sbranato dai cani di Diana per aver visto per puro caso la nudità della Dea, non sembra nemmeno del tutto peregrino. In una lettera di Ovidio dall’esilio infatti si legge: ‘la mia colpa è quella di aver avuto gli occhi’. Ma che cosa ha realmente visto, nessuno lo sa”.
Non a caso, il mito di Atteone ispirerà il filosofo divenuto icona dei martiri del libero pensiero, ovvero Giordano Bruno. Il grande pensatore nolano chiarisce subito il ruolo allegorico del mito nella sua interpretazione: “Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina”. Come scrive Giulio Gioriello nel suo commento a Il mito di Atteone (Dialogo IV tratto da Degli Eroici Furori, edizioni AlboVersorio): “Bruno prende uno strumento iconografico della tradizione e lo fa diventare una metafora dell’ascesa filosofica”.
“Come per Giordano Bruno, anche per Klossowski ‘pensare significa speculare con delle immagini’”, chiosa Marco Tagliaferri sul sito della Treccani nel suo commento a Il Bagno di Diana di Pierre Klossowski, riproposto da Adelphi nella elegante traduzione di Giuseppe Girimonti Greco.
Klossowski all’inizio della sua riflessione pone l’ipotesi di un quesito cruciale: “Dovremo chiedere ai teologi se, fra tutte le teofanie che si sono prodotte nel tempo, ne esiste una più sconcertante di questa? Una divinità che si offre e al tempo stesso si sottrae agli uomini sotto le seducenti fattezze di una vergine prorompente e letale”. Michel Foucault si pronunciò con la sua consueta lucidità: “Il bagno di Diana è senza dubbio, di tutti i testi di Klossowski, il più vicino alla luce abbagliante, ma per noi estremamente oscura, da dove vengono i simulacri”. Il concetto di simulacro è, infatti, cardine del testo, in una meditazione mistica che anticipa le riflessioni apocalittiche di Baudrillard e la rivolta antiplatonica di Deleuze.
Ne Il Bagno di Diana si ritrovano tutti i grandi temi di Klossowski (precedenti e successivi): l’ossessione voyeuristica della trilogia Le leggi dell’ospitalità; l’eterno ritorno nietzscheano come esperienza misterica; il rapporto paradossale tra pornografia e mistica (caro al suo amico Carmelo Bene) che in lui Deleuze riconosceva come “pornologia superiore” (ricordiamo l’apparizione di Teresa d’Avila ne Il Bafometto); nel finale affiora il saggio d’esordio Sade prossimo mio.
Al di là della complessità labirintica delle riflessioni klossowskiane, il libro è un vertice anche dal punto di vista meramente stilistico: una prosa a volte solenne e ieratica come l’Adagio finale della Terza Sinfonia di Mahler, a volte ebbra e trionfante come l’assolo di Coltrane in Chim Chim Cheree. Una vertigine letteraria che sfida i limiti delle parole, inseguendo il lucido delirio della visione mistica, proprio per sfuggire al peccato originale del razionalismo occidentale: “La presuntuosa ed empia volontà di appropriarsi del mito attraverso la mediazione del linguaggio”. In questo senso, è perfetto ciò che dice Elena Guicciardi (in un articolo su Repubblica di quasi 30 anni fa): “Nell’opera klossowskiana (…) riecheggia sempre” come disse Maurice Blanchot in un bellissimo saggio “il riso degli dei”.