A un certo punto accade. Puoi avere 35, 40 o 50 anni. Solitamente accade più spesso, però, dopo aver oltrepassato la metà della vita. È dapprima una sensazione indistinta, quasi un leggero malessere. A mano a mano, con il tempo, prende la forma di un’idea. E questa idea contiene un’intuizione che inizialmente può essere molto amara. Hai più di 40 anni e non hai fatto la carriera che avresti voluto, non sei arrivato là dove, 15 anni fa magari, ti sembrava naturale che saresti arrivato.
È vero, non si sa mai, ma il futuro non sembra annunciare grandi novità. Anzi, ti appare sempre più chiaro che, nella migliore delle ipotesi, conserverai ciò che hai. Che, appunto, non era quello che avresti voluto: il lavoro da cui aspettare quelle gratificazioni che volevi, l’occupazione – sia per tipo di contratto, che per posizione, che per notorietà – che immaginavi quando stavi chino sui libri, certo che il tanto studio avrebbe portato certamente a un discreto successo.
A questo punto è fondamentale capire perché quel successo non è arrivato. Ragionare sulle cause, isolare le responsabilità, dividere ciò che frutto di scelte personali e ciò che è invece conseguenza di condizioni esterne verso le quali nulla si poteva fare. E qui bisogna essere molto onesti. Dietro ogni carriera mancata ci sono tante cause.
1. Quasi sempre, tra i problemi ci sono scelte formative sbagliate: una laurea non giusta, lingue mai studiate, l’aver capito con ritardo quale settore lavorativo stava crescendo e quale stava calando; la decisione, magari, di non cambiare città o Paese. Questi errori, però, sono intrecciati profondamente con il carattere di ciascuno di noi. E quindi, anche, con squilibri emotivi che derivano da infanzie infelici, sofferte. Purtroppo, questi condizionamenti vanno a inficiare scelte che avrebbero potuto essere diverse e magari migliori. Si può parlare di errori del singolo? In parte sì, in parte no: nessuno si sceglie l’infanzia che ha e chi, ad esempio, è stato immensamente amato sarà sicuramente molto più sicuro e vincente di chi amato lo è stato poco, e cammina tutta la vita sull’orlo di un precipizio.
2. Poi ci sono – una specie di bomba che può far saltare qualsiasi carriera anche perfettamente avviata – le gravidanze. Gli uomini possono saltare questa parte, ma anche no: perché purtroppo sono ancora davvero pochi quelli che veramente capiscono quanto avere figli stia alla radice di tanti fallimenti lavorativi, che continuano invece a essere imputati alla donna. Nessun vittimismo o lamentela. Semplicemente concepire, portare avanti la gravidanza, partorire, allattare, svezzare, educare, crescere, accompagnare uno o più figli è un lavoro macroscopico, enorme, gigantesco e chi lo ha provato lo sa benissimo.
Non c’è spazio qui per parlarne diffusamente, ma sono migliaia le donne che lasciano un lavoro dopo il parto, e ancor più centinaia di migliaia quelle che un lavoro non lo prendono perché non è compatibile con la cura dei bambini, con il seguire da vicino figli piccoli e grandi, che hanno bisogno di tutto: in primo luogo, di una presenza e una vicinanza assolute. Nulla che si veda dall’esterno, a meno che non si abbiano occhi sensibili e una medesima esperienza.
3. E veniamo al terzo punto. Lo chiamerei sfortuna, ma alla sfortuna non credo tanto. Io credo invece alle condizioni sociali e socioeconomiche di un Paese, alla sua organizzazione del lavoro e alla sua cultura del lavoro. E l’Italia è un luogo dove il lavoro è maltrattato, direi deriso, forse ormai distrutto. Totalmente sottopagato, persino in settori prestigiosi, totalmente precario, persino in settori prestigiosi, mentre la carriera è ancora direttamente proporzionale – anche in aziende private, pure se appare un paradosso – non al merito ma alle conoscenze, agli agganci, alle raccomandazioni di ogni sorta.
Potrei andare avanti a lungo, ma ci siamo capiti. E allora, in breve: scelte personali sbagliate (anche se non frutto di una “colpa” ma di un’infanzia infelice), gravidanze (per le donne) e cura dei bambini, un mondo del lavoro dove predomina lo sfruttamento e sale solo chi ha conoscenze: ecco il motivo di tante carriere mancate, specie di chi è nato negli anni Settanta e ormai Ottanta. Ecco il motivo di tanta amarezza e infelicità.
Ma è davvero infelicità? Qui vorrei arrivare al punto finale. Avere un lavoro poco gratificante è brutto, specie se poi non ti consente di arrivare a fine mese. Ma chi ha fallito dice che ciò che brucia di più è il senso di fallimento e di sconfitta. Su questo, però, credo che noi generazioni meno fortunate possiamo fare una riflessione che può darci un relativo sollievo. In fondo, il lavoro che stiamo facendo su noi stessi, quello di accettare la nostra condizione, farcene una ragione, venire a patti con la sofferenza che ci provoca, è un lavoro che tutti, anche chi è riuscito, prima o poi dovrà fare.
È nota la depressione feroce di quelle persone, spesso uomini, che hanno fatto carriere importanti e che poi, magari a 70 anni, si ritrovano da un giorno all’altro senza nulla. E con la vuota vecchiaia di fronte. Onestamente non li invidio, perché deve essere tremendo. E con questo non voglio dire che fare carriera non sia bello, ma che non farla può farti esercitare in anticipo sull’accettazione della realtà, consentirti di venire a patti con il Negativo – mettiamolo pure con la n maiuscola – che è presente nella condizione umana, carriera o non carriera fatta.
Un messaggio pure per i più giovani: studiate, ovviamente, soprattutto scegliete la laurea e il settore giusto, ma non fatevi troppo fregare dalle varie pubblicità di master che promettono la carriera scintillante. Sappiate che invece sarà dura, anzi durissima, e che la possibilità di non farcela è reale. Ma questo non vuol dire che sarete per forza esistenzialmente falliti o frustrati. Tutt’altro. Magari, invece, più consapevoli, meno alienati. Meno dipendenti dall’esterno, anche. E in fin dei conti si tratta di una cosa buona: anche per il benessere che genera in chi, specie bambino ma anche adulto, vive con una persona che ha saputo accettare il limite.