“Una persona alla volta, un sorriso alla volta. È così che si cambia il mondo”: questa frase, che campeggia sulla copertina del libro Bianco come Dio (Rizzoli, 2018), non può far altro che rimanermi impressa nella mente. È solo la prima di tante che si incontrano in questo romanzo, semplice ma straordinario, scritto da Nicolò Govoni, un ragazzo cremonese di 25 anni che sta facendo della sua vita, e di quella delle persone che lo circondano, un piccolo, grande capolavoro. Il libro è il racconto di come la sua esistenza, all’età di 20 anni, sia cambiata per sempre facendo una scelta: rassegnarsi a vivere una quotidianità che non sente propria, ma immerso nelle comodità, oppure rimboccarsi le maniche e provare a migliorare le cose?
Nicolò sceglie la seconda e, nel 2013, investe un piccolo capitale per partire con un’organizzazione internazionale alla volta di un villaggio rurale dell’India, come volontario nell’orfanotrofio di Dayavu Boy’s Home. Qui trova qualcosa che in Italia non aveva mai incontrato: a colpire nel segno sono il sorriso dei bambini, la profondità dei loro sguardi, ma soprattutto il loro bisogno di stabilità. Nel corso dei mesi di permanenza previsti dal programma, però, si rende conto che qualcosa non quadra: lui è animato da buone intenzioni, ma gli viene detto di insegnare inglese ai bambini, pur non avendolo mai fatto prima in vita sua. Nessuno lo supervisiona, nessuno gli fa un minimo di training su come comportarsi, in certi momenti si sente quasi riverito per la sua condizione di volontario dalla pelle bianca. Un giorno chiede a Joshua, il responsabile della struttura, quanto denaro arrivi all’orfanotrofio dall’organizzazione e la risposta lo fa rimanere di sasso: solo tre euro al giorno, a fronte di sostanziosi contributi versati da chi parte. Nicolò capisce ben presto di essere caduto nella trappola del volonturismo: un turismo travestito da volontariato, vero e proprio business attivato da certe organizzazioni che fanno leva sul desiderio delle persone di dare un proprio contributo al mondo.
“Si tratta di un’esperienza più o meno a pagamento volta a gratificare dal punto di vista pratico o emotivo il volontario, invece dei beneficiari, anzi alle volte proprio a loro spese, perché senza formazione, né supervisione, puoi inconsapevolmente fare danni”, mi spiega Nicolò quando gli chiedo di raccontarmi meglio questo fenomeno. “Ci si difende sia avendo chiara l’idea di cosa si possa fare, sia selezionando con cura l’organizzazione con cui partire: bisogna farsi delle domande quando ti chiedono soldi per attività per le quali in Italia non dovresti versare nulla, se non fanno selezione preventiva e se propongono di svolgere nel Terzo Mondo attività che in Italia non potresti legalmente svolgere. Ad esempio, qui un laureando in Medicina non potrebbe mai effettuare un cesareo su una donna, perché non è ancora un medico: perché invece potrebbe farlo in Africa? Le donne nere valgono forse meno?”.
Con questa nuova consapevolezza, dopo un breve rientro in Italia, Nicolò decide di tornare autonomamente a Dayavu Home, ma questa volta per restare: in 4 anni, riesce a far costruire un nuovo dormitorio, evitare la chiusura della struttura e avviare un fondo per l’educazione, mandando i più piccoli a scuola e i più grandi all’università. Il volto dell’orfanotrofio cambia, così come le vite dei ragazzi. Quando nel 2017 giunge il momento di cambiare destinazione, solo un sogno è rimasto incompiuto, ovvero la costruzione di una piccola, ma ricca biblioteca: ecco perché il ricavato delle vendite di Bianco come Dio sarà interamente devoluto a questo progetto.
Sull’educazione Nicolò punta tutto, anche oggi che la sua personale missione è radicata in uno degli angoli più disperati d’Europa: l’isola di Samos, in Grecia, un lembo di terra che affaccia sulla Turchia. Qui, il diritto all’istruzione viene negato ai bambini rifugiati: le scuole pubbliche sono a loro chiuse, è assente ogni tentativo di integrazione e si respira un clima molto ostile da parte degli abitanti. “A Samos il campo è completamente illegale: ci sono 4.400 profughi stipati in uno spazio che ne può ospitare solo 650 e le condizioni igienico-sanitarie sono disperate. C’è una doccia ogni 200 persone, i servizi igienici sono in parte danneggiati, si vive in mezzo a ratti e serpenti, le malattie si diffondono velocemente e ci sono solo due medici in tutto il campo. In queste condizioni, vivono anche 1500 bambini circa, più o meno il 30% degli abitanti del campo”.
1 /5 Campo di Samos – ph. Nicoletta Novara
A maggio 2018, Nicolò e altre due volontarie, Sarah Ruzek e Giulia Cicoli, fondano allora l’onlus italo-greca Still I Rise: la mission è offrire educazione e protezione ai minori rifugiati attraverso la costruzione di una scuola. Il tam tam sulla seguitissima pagina Facebook di Nicolò è incessante e permette di raccogliere i fondi necessari per affittare, ristrutturare e aprire nel giro di tre mesi lo spazio che oggi ospita Mazì, la prima scuola per bambini e adolescenti rifugiati dell’isola. Il team è formato da 12 persone, tra staff e volontari, principalmente italiani.
“Siamo completamente indipendenti: non prendiamo fondi dai governi, né dall’Unione europea o dall’Onu, ma ci sosteniamo grazie alle donazioni delle persone che ci seguono su internet. Al momento abbiamo 170 studenti dagli 11 ai 17 anni, iscritti in sei diverse sezioni; in totale, da agosto 2018 a oggi sono stati con noi 700 ragazzi. Siamo aperti dieci ore al giorno, durante le quali ogni studente ha sei ore di lezione, e serviamo a tutti colazione e pranzo; a fine giornata, i bambini si occupano della scuola e mettono a posto. Per loro questo è un vero e proprio porto sicuro, un cavalcavia sopra il campo, affinché non gli entri dentro: la mattina sono già fuori dall’ingresso prima che la scuola apra e la sera restano fino alla chiusura, perché non vogliono tornare nel campo. Nelle due ore di veglia che trascorrono lì, quindi dalle 19 alle 21, devono difendersi e picchiare: c’è tanta violenza e anche solo quelle due ore sono dannose per la loro psiche”.
A Samos, infatti, il sovraffollamento e le pessime condizioni di vita rendono incandescente la convivenza tra i profughi. Le situazioni più critiche si registrano durante la distribuzione del cibo, che avviene tre volte al giorno e costringe a file interminabili di quattro/cinque ore per ogni pasto: la violenza scoppia tra le persone in coda, con momenti di tensione e paura. “Se l’estremismo è qualcosa che si può nutrire, non viene nutrito in Turchia o in Siria, ma in questi campi, che stanno rovinando le persone e fanno abituare i bambini alla violenza: come europei, stiamo lavorando davvero contro i nostri interessi e tutto questo è ancora più grave se si pensa che l’Unione Europea stanzia ingenti fondi per questi posti».
Anche la condizione dei minori non accompagnati è tragica. Nicolò mi spiega che ce ne sono 300, stipati in container rotti, senza luce, senza acqua corrente, senza porte: sono spazi che strutturalmente potrebbero ospitare solo 8 bambini ciascuno; in realtà, ogni notte in 30 dormono lì, per terra, con le loro coperte per difendersi dal freddo e dalla forte umidità dell’isola. “Dovrebbero godere di maggiore protezione, invece li lasciano marcire. L’esempio più eclatante è quanto è accaduto pochi giorni fa a un bambino afghano di 10 anni e a suo fratello di 16, inseparabili e non accompagnati dai genitori: la madre era stata uccisa lungo la tratta pericolosissima dell’Afghanistan e il padre era incapace di muoversi. Dopo quattro mesi di permanenza nel campo, i servizi sociali ellenici hanno trovato posto in una casa famiglia per il più piccolo e non per il più grande, di fatto separandoli senza alcuna garanzia futura di farli riunire. È stato veramente tragico e scioccante, per loro, ma anche per noi”.
L’episodio è stato la scintilla per un’altra iniziativa di Still I Rise, ovvero quella di dotare la scuola di un supporto legale per difendere i diritti dei bambini rifugiati in casi così estremi. Ma non è stata l’unica conseguenza: lo shock che ha provato Nicolò nei confronti della vicenda lo ha portato proprio in questi giorni a decidere di iniziare a lavorare al suo nuovo libro. “Ci sono parti della vita di questi bambini che, come scuola, non potremo mai raggiungere ed è arrivato il momento di raccontare nero su bianco la realtà di Samos, in modo più longevo di un post su Facebook“, mi spiega. “Nei limiti dei miei mezzi, è l’unico modo in cui io possa sperare di infliggere un colpo abbastanza forte da creare, forse, un cambiamento”.