“La maglietta per la parità di genere venduta a scopo benefico dalle Spice Girls viene prodotta in Bangladesh da donne pagate 40 centesimi l’ora”. La denuncia è del Guardian. Il quotidiano britannico in un’inchiesta accusa la Interstoff Apparels, di sfruttare le sue operaie per produrre anche 2000 capi al giorno, guadagnando cifre misere. Tutto per cucire le t-shirt limited edition #Iwannabeaspicegirl, messe in commercio dal celebre gruppo pop dopo la recente reunion.
Un’accusa da cui le quattro (Victoria Beckham non è mai rientrata nel gruppo), si sono subito difese dicendo di non saperne nulla. “Sono scioccate”, ha commentato un portavoce delle Spice, dando la colpa al sito a cui le magliette sono state commissionate, Represent, che avrebbe cambiato fornitore all’ultimo. Intanto la band ha subito chiesto al rivenditore di donare parte degli introiti ai meno abbienti. Il capo esclusivo prodotto da Mel C., Mel B., Geri Halliwell e Emma, costa poco più di 19 sterline. Di queste 11 vengono donate all’associazione Comic Relief per aiutare la campagna a favore dell’equità tra uomini e donne. Un progetto umanitario che la band ha lanciato qualche mese fa, sottolineando di aver sempre tenuto a temi come “l’uguaglianza e i diritti delle persone”.
Anche l’azienda bangladese ha subito respinto le accuse, dichiarandole false. Il Guardian cita la storia di Salma (nome di fantasia) e le buste paga di molte sarte della ditta. Secondo le accuse del quotidiano britannico, oltre a essere sottopagate, le ragazze spesso molto giovani, poco più che ventenni, venivano costrette a sostenere ritmi elevati, cucendo anche 16 ore consecutive al giorno. Tra le lavoratrici vessate, infine, anche alcune donne incinta. L’inchiesta, scrive in fondo all’articolo il giornalista del Guardian, vuole essere anche un appello ai consumatori britannici. E a pronunciarlo è proprio la ragazza, Salma, che con il suo racconto dà vita a tutto il pezzo. “Anche l’ambiente di lavoro non è buono – dice – Voglio solo portare questo problema all’attenzione del pubblico globale. Non siamo abbastanza pagati e lavoriamo in condizioni disumane qui”.