Carburanti fuori norma
Petrolio e gas sono gli altri grandi bottini continentali ambiti dalle multinazionali di mezzo mondo. Il Delta del Niger (Nigeria) da decenni è sfruttato in modo indiscriminato. Tra gli altri, sono finiti sul banco degli imputati Royal Dutch Shell ed Eni, operatori principi in quell’area. Ciò che è meno noto è che non solo prosciughiamo coste ed entroterra africani degli idrocarburi presenti, ma rivendiamo, poi, a quei popoli i carburanti scartati dai mercati europei a causa dell’alta concentrazione di inquinanti. Si tratta dell’esportazione dei cosiddetti dirty fuels, prodotti vietati nei Paesi dell’Ue e negli Stati Uniti, ma che esportiamo in Africa, approfittando dei più bassi standard di sicurezza. A scoperchiare il vaso di pandora è stato un rapporto pubblicato nel 2016 dall’ong svizzera Public Eye. Per tre anni gli esperti dell’organizzazione hanno prelevato campioni di benzina e diesel dai distributori di otto Stati africani e nessuno di essi avrebbe potuto essere venduto in Europa. Le concentrazioni di zolfo sono arrivate fino a un livello massimo di 3.780 parti per milione, 378 volte il limite europeo di 10 ppm. Più di due terzi avevano livelli superiori a 1.500 ppm, 150 volte il limite Ue.
Ma tutto questo e mille altri esempi ancora finiscono in un buco nero. Li ignoriamo. Osserviamo ciò che accade in Africa con il binocolo miope e avaro che vede solo terrorismo, migrazioni e povertà. E ogni tentativo di approfondimento è sepolto da perentorie semplificazioni. Eppure l’Europa e l’Italia mai come oggi proclamano con forza di interessarsi al continente. L’ultimo slogan emotivo con cui ci bombardano per farci sentire bene è: aiutiamoli a casa loro. Ma in che modo, oggi, li stiamo aiutando? Le pratiche occidentali considerate “buoniste”, travestite da incentivi allo sviluppo o da aiuti umanitari, si stanno rivelando da tempo, se non disastrose, inefficaci. I fondi sono distorti: la cooperazione allo sviluppo è sempre più percepita dai leader dell’Ue come uno strumento per «controllare e gestire la migrazione». Non per incidere sulle ragioni strutturali della povertà in Africa.