Avete provato a discutere dei recenti naufragi con qualche richiedente asilo o rifugiato africano arrivato dalla Libia? Ho fatto questo esperimento il pomeriggio successivo alle notizie sul terribile naufragio di gennaio, l’ho fatto con i sei più impegnati al momento nel progetto Ecomori che la mia associazione Eco dalle Città sta portando avanti a Torino, con al centro Porta Palazzo.

La discussione è difficile da raccontare perché è stata frammentaria, a tratti tumultuosa, con qualche fraintendimento, anche perché si svolgeva nella loro terza o quarta lingua, l’italiano. Cinque dei sei ragazzi provengono da Paesi francofoni colonizzati dalla Francia, la responsabile ultima di questi drammi secondo la recente narrazione ufficiale di 5 stelle. Uno anglofono (Gambia). La mia domanda era: di chi è la colpa? di chi sono le colpe di questi naufragi? Il discorso è cominciato in modo inaspettato.

A. ( il fatalista) ha detto “lo sanno che l’Italia ha chiuso, che non vuole più nessuno” e quasi diceva che i naufraghi se la son cercata. Gli altri lo hanno contestato. “Non hanno alternative, come non le abbiamo avute noi (sbarcati in anni che vanno dal 2014 al 2017, nda)”. K. precisa, cercando di recuperare quello che ha detto A.: “Certo chi è salito su quelle barche sapeva i rischi che correva, ma questo non vuol dire che la colpa sia sua”. O., visibilmente indignato, interviene a voce alta: “In Libia non si può più stare, non si può rimanere lo sapete benissimo. È un inferno vivente. A noi neri ci fanno prendere di mira dai bambini per insegnargli a provare i fucili. Tornare per il deserto forse potrebbe essere meno pericoloso che partire via mare ma comunque non si può. E quindi si parte via mare”.

Allora la colpa è degli scafisti? “Beh solo fino a un certo punto” risponde K. “non sono mica gli scafisti che ci fanno partire dai nostri Paesi”. “Io non avevo in mente di andare in Europa” racconta B. “con il mio amico siamo stati proprio venduti a chi ci ha sequestrato”. In questa, come in altre conversazioni che ho avuto con altri reduci sembra quasi che per loro essere sequestrati, minacciati, ricattati, torturati nei campi libici sia la logica, estrema conseguenza del razzismo dei libici arabi contro i neri, mentre invece essere imbarcati su natanti inadeguati sia una sorta di inevitabile debolezza tecnica. “Ma allora i libici che vi han fatto partire sulle barche sono diversi da quelli che prima vi hanno segregato?” “No” concede O. “probabilmente i signori, i padroni che manovrano le cose sono gli stessi. Ma la Libia è un caos.”

E le barche su cui siete partiti voi erano arrivate fino in Italia o siete stati salvati da una nave? Tutti e sei – sei viaggi diversi – sono stati salvati da una nave. “Sapete cosa dice Salvini? Che le navi che salvavano le barche, in questo modo aiutavano gli scafisti“. Sconcerto e indignazione. “Ah e la soluzione allora sarebbe farli annegare?” Torno alla domanda iniziale: di chi la colpa, o le colpe, di questi naufragi? “Della Libia, naturalmente, ma forse ancora di più dell’Europa” è la risposta prevalente. Dell’Europa perchénon salva (più) le barche, ma soprattutto per un altro motivo, politico, che non mi aspettavo venisse citato. “La Libia è così perché non c’è uno Stato, non c’è un presidente” spiega B. “In Libia non c’erano questo razzismo e questo caos” amplia O.” l’Europa è intervenuta per ammazzare Gheddafi, e ha creato il casino, doveva anche trovare una soluzione”. “E anche gli Stati africani, la Unione degli Stati africani, dovrebbe intervenire per la Libia” aggiunge K.

La soluzione, la stabilizzazione di cui parlano non è quella di cui si vagheggia in Europa, uno Stato che abbia una guardia costiera che non fa più partire nessuno. Quasi tutti i sei partecipanti alla discussione sarebbero rimasti in Libia a lavorare, a tirare su qualche risparmio, a tenersi distante dai problemi dai quali erano fuggiti, come facevano tranquillamente i loro fratelli maggiori o genitori fino a poco tempo fa. È quello che intendono come soluzione per la Libia: ripristinare un minimo di sicurezza per gli immigrati subsahariani. Ancora due anni fa, per quanto possa sembrare incredibile, c’è chi è arrivato in Libia non per andare in Europa, ma un po’ perchè incastrato da altri meccanismi, un po’ perchè illuso di potersela cavare lì. Ovviamente in tutta la discussione a nessuno è venuto in mente di dire che la colpa dei naufragi è del neocolonialismo francese. Molta attenzione hanno suscitato invece le frasi di alcuni migranti riportate dai media – “Preferiamo morire che essere riportati in Libia“: un dilemma tragico che loro, che hanno viaggiato prima di Salvini ministro, non si sono dovuti porre.

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