LA TESTIMONIANZA - Eritreo, sbarcato nel 2005, presidente del Comitato Tre Ottobre, oggi è italiano a tutti gli effetti e lavora come mediatore culturale nel centro di Castelnuovo di Porto, a Roma. Nel 2014 ha ricevuto la medaglia per l’attivismo sociale conferita dai Premi Nobel per la Pace. Nel 2016 è riuscito a far approvare dal Parlamento la Giornata della Memoria e dell'Accoglienza e da due anni gira le scuole italiane ed europee per parlare con i ragazzi della sua esperienza. Ma nel 2002 era su un barcone con altre 267 persone diretto verso l'Italia
“Io so cosa vuol dire”. Al telefono la voce è fredda. Distante, di una distanza psicologica oltre che fisica. Il genere di distanza che distingue chi ha visto e vissuto da chi non lo ha fatto ma parla. E twitta. Spesso su cose che non conosce, se non per sentito dire. “Io so cosa significa, da migrante, essere riportato in Libia“. Come accaduto al barcone con 100 persone a bordo trasbordati su un cargo della Sierra Leone e riportati a Misurata. Tareke Brhane, eritreo, è il presidente del Comitato Tre Ottobre. Ogni anno si batte perché non si perda il ricordo della tragedia in cui nel 2013 morirono 368 migranti, in maggioranza eritrei, annegati a pochi metri dalle coste di Lampedusa.
A lui è andata bene, oggi è italiano a tutti gli effetti, lavora come mediatore culturale nel centro di Castelnuovo di Porto, a nord di Roma. Nel 2014 ha ricevuto la medaglia per l’attivismo sociale conferita dal XIV Summit dei Premi Nobel per la Pace. Nel 2016 è riuscito a far approvare dal Parlamento la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza , ha contribuito a mettere a punto un protocollo per il riconoscimento delle vittime dei naufragi e da due anni gira le scuole italiane ed europee per parlare con i ragazzi della sua esperienza. Ma nel 2002 era su un barcone con altre 267 persone diretto verso l’Italia.
“Eravamo fermi da tre mesi in quel complesso, a Tripoli – ricorda dall’altro capo del telefono – eravamo 400 persone, con un solo bagno per tutti. Non devi dire nulla, non puoi denunciare perché sono le stesse forze dell’ordine che organizzano i viaggi. Una sera a mezzanotte caricarono la maggior parte di noi su un grande camion, ci coprirono con un grande telo perché nessuno ci vedesse e ci portarono su una spiaggia.
Ad aspettarci c’erano uomini armati di pistole e bastoni. Ci caricarono su piccoli gommoni e viaggio dopo viaggio portarono la maggior parte di noi sulla nave madre, ormeggiata al largo. I miliziani picchiavano alla cieca per costringere la gente a salire il velocemente possibile sui gommoncini. Picchiavano anche le madri che si fermavano ad aspettare che i figli salissero a bordo.
Il barcone era vecchio, lassù eravamo in 268, tutti ammassati. I trafficanti non avevano messo a bordo neanche un bidone d’acqua per il viaggio per usare quello spazio per mettere una persona in più e guadagnarci di più. La linea di galleggiamento era quasi al livello del bordo superiore dello scafo. Sarebbe bastata un’onda più alta delle altre a capovolgerla e a mandarci tutti in acqua.
La mattina, dopo circa 10 ore di viaggio, il motore smise di funzionare. Noi eravamo seduti nella stiva e speravamo solo in un miracolo. Il primo giorno passò così. Molti avevano cominciato a liberarsi, a farsi i loro bisogni addosso. Eravamo seduti da ore senza bere né mangiare, qualcuno provava a bere l’acqua del mare.
Il secondo giorno la gente cominciò a innervosirsi. “Non vedo l’ora che questa barca vada a fondo, almeno smetto di soffrire”, diceva qualcuno. Musulmani e cristiani pregavano e facevano promesse e voti in cambio della salvezza. Tutti si domandavano quale sarebbe stato il momento in cui la barca sarebbe colata a picco, c’era la sensazione che potesse accadere da un momento all’altro. Lo scorrere delle ore è logorante, ti affatica almeno fanno quanto la noia e l’impossibilità di stendere le gambe, di muovere un solo muscolo.
Il terzo giorno avevamo cominciato a incrociare altre imbarcazioni. Le navi ci passavano accanto e facevano finta di non vederci. All’epoca c’era una legge in base alla quale le navi che aiutavano i barconi in difficoltà venivano denunciate per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, così quando le incrociavamo, anche se ci sbracciavamo e chiedevamo aiuto, facevano finta di non vederci.
Il 4° giorno ci raggiunse una motovedetta della Guardia costiera di Malta. Eravamo felicissimi. Mi ricordo che una signora urlava: “Tra poco rivedrò mia figlia”, raggiante. Era anziana, ma urlava fortissimo. I maltesi si avvicinarono e cominciarono a lanciarci delle bottiglie d’acqua e qualcosa da mangiare. Gallette. Poi ci lanciarono una corda, qualcuno la legò alla prua della nostra barca e la motovedetta iniziò a trainarci.
Dopo alcune ore, era quasi notte, ci accorgemmo che qualcosa non andava. “Guardate che non stiamo andando verso l’Europa – cominciò a dire un uomo, diceva che aveva lavorato in mare e che sapeva orientarsi guardando le stelle – non stiamo andando in Italia, stiamo tornando verso la Libia“. A quel punto la gente iniziò a urlare: “Non portateci indietro – gridavano – per pietà“. L’essere riportati in Libia e l’essere lasciati nel Mediterraneo per noi era la stessa cosa. Non cambiava nulla. Sarebbe stato quasi meglio se ci avessero lasciato in mezzo al mare, perché in Libia sapevamo cosa ci aspettava.
Urlavamo verso la motovedetta, mentre i maltesi ci guardavano da lontano e facevano un segno con le mani, come a dire: “Non possiamo farci nulla”. “Non riportateci in Libia”, urlavamo in inglese, in italiano, in tutte le lingue che conoscevamo. Poi loro cominciarono a far finta di non sentire, come se fossero sordi. Dopo diverse ore avvistammo un peschereccio libico e la gente impazzì. “Lasciatemi morire qui – gridava qualcuno – non voglio tornare”. I maltesi consegnarono la corda con cui ci avevano trainato ai libici e quelli cominciano a portarci verso terra.
La mattina dopo eravamo a Tripoli. Erano giorni che non mangiavamo e non bevevamo un goccio d’acqua. In un paese normale ad aspettarci avremmo trovato un medico, un’ambulanza, qualcuno con dei viveri o almeno con dell’acqua o dei biscotti, che ne so. Invece ad accoglierci c’erano schiere di poliziotti. In mano avevano bastoni e tubi neri. Man mano che ci facevano scendere dalla barca, ci colpivano con pugni e calci. “Volevate andare in Italia, eh?”, gridavano. E giù botte. Noi eravamo stanchi, avevamo fame. Ma loro picchiavano, picchiavano chiunque gli capitasse a tiro. Picchiarono anche me, ma io non sentivo nulla. Come se il mio corpo non mi appartenesse più, non fosse più mio.
Qualche ora dopo arrivò un camion. Era tipo un camion frigo, come quelli che trasportano le carni uscite dai macelli. Ma non avere impianto di refrigerazione. Su due lati, in alto, c’erano due minuscole finestre grandi come la mia mano. Ci caricarono tutti e chiusero i portelloni: se fuori c’erano 40 gradi, lì dentro ce n’erano 80. Gente con l’asma, madri con i bambini, anziani: ai libici non importava nulla, tutti dentro quel forno. Ci portarono nel centro di detenzione di Al Fallah, a sud ovest di Tripoli.
C’erano migliaia di persone. Le celle erano sovraffollate, c’era gente di tutti i tipi e di diverse nazionalità: bangla, eritrei, somali… Eravamo in troppi, così decisero i trasferirci in un altro carcere, a Misurata. Ci caricarono su un altro tir. Appena la gente metteva piede nel cassone, la prendevano a botte con i bastoni. Non c’era pietà, picchiavano sulla testa, sulla schiena sulle braccia. Si sentivano le ossa crepitare e spezzarsi sotto i colpi. Dopo che l’ultimo di noi fu salito ed ebbe ricevuto la sua parte di mazzate, le porte del cassone si chiusero e il camion si mosse. Il viaggio durò mezza giornata. Il tir non si fermava e chi aveva dei bisogni di fare dove farli lì dentro, nella maggior parte dei casi se li faceva addosso. Si soffocava.
Quando il camion si fermò e si aprirono i portelloni, neanche il tempo che i nostri occhi si riabituassero alla luce che ricominciarono le botte. Ci fecero scendere uno a uno e appena mettevamo un piede a terra giù un’altra scarica di bastonate e frustate con i tubi neri. Erano poliziotti, picchiavano dove capitava e gridavano: “Corri, corri!!! Entra, entra!!!”. E tu allora correvi più veloce che potevi per evitare i calci e i pugni continuavano a venire giù.
Il cortile in cui si era fermato il camion era molto grande. Noi invece non potevamo fermarci, dovevamo continuare a correre lungo il perimetro della piazza perché appena provavamo a rifiatare ricominciavano a picchiarci. Ci facevano correre come fossimo animali appena usciti da una stalla, come fossimo cavalli, a furia di botte. Credo servisse a farci stancare, per fiaccarci fisicamente e moralmente. Poi ci fecero sedere e a gruppi. Il fu fatto entrare entrare in una stanza vuota, completamente vuota. Non c’erano letti, né materassi per dormire. C’era un solo bagno, ma non funzionava. Eravamo circa 30 persone. Da mangiare ci davano un pugno di riso mezzo crudo al giorno o della pasta cruda.
In posti come quello non c’è nessuno che ti domandi chi hai pagato per fare il viaggio, chi lo ha organizzato, non vai davanti a nessun giudice. Non vedi nessuno. Sai quando entri, ma non sai quando uscirai. Puoi restarci un mese, una anno, tre anni. Non c’è una regola, né un limite“.