Dopo la Consob, anche la procura di Milano mette nel mirino i conti della società negli anni in cui la Cassa Depositi e Prestiti ne ha comprato il 12,5% portando a portato a termine l'operazione di sistema che ha tolto un po' di carne dal fuoco al Cane a sei zampe
L’amministratore delegato di Saipem, Stefano Cao, e a vario titolo, due suoi dirigenti e un ex sono indagati dalla Procura di Milano nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza false comunicazioni sociali “relativamente al bilancio 2015 e 2016, la manipolazione del mercato commessa dal 27 ottobre 2015 all’aprile 2017 e il falso nel prospetto dell’aumento di capitale del gennaio 2016”. A comunicarlo in una nota è stata la stessa società.
Nel testo si legge che gli inquirenti milanesi hanno notificato un decreto di perquisizione e contestualmente un’informazione di garanzia agli indagati. Saipem ricorda che, come noto, Consob a marzo 2018 ha indicato la non conformità del bilancio consolidato e di esercizio 2015 e 2016 alle norme che ne disciplinano la predisposizione rilevando degli “errori”: le contestazioni della Commissione, in quel caso, riguardavano le svalutazioni immobiliari e lo svolgimento dell’impairment test. Ad aprile 2018, Saipem ha impugnato tale delibera al Tar Lazio, presso il quale pende tuttora il giudizio.
Inoltre la società ricorda che il 6 aprile dello scorso anno la Divisione Informazione Emittenti di Consob ha avviato un procedimento amministrativo sanzionatorio formulando contestazioni, ai sensi Tuf, il prospetto informativo che Saipem mise a disposizione del pubblico nel gennaio 2016, in occasione dell’aumento di capitale da 3,5 miliardi di euro, e aveva avviato un procedimento “amministrativo sanzionatorio” nei confronti degli amministratori e del direttore finanziario in carica in quel momento. Procedimento che è ancora in corso.
Del prospetto, gli uffici della Consob avevano contestato “l’inidoneità della documentazione d’offerta a consentire la formulazione di un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente da parte degli investitori”. La contestazione si soffermava, tra le cose, sulle “stime di risultato del gruppo per l’esercizio 2015“, “le previsioni di risultato del gruppo tratte dal Piano Strategico 2016-2019” e “la dichiarazione sul capitale circolante netto”.
La questione, venuta a galla all’indomani delle ultime elezioni politiche, è piuttosto delicata sotto vari profili. A partire da quello politico appunto. Secondo l’autorità di vigilanza, nei conti 2015 di Saipem mancano all’appello “alcune svalutazioni (per un ammontare complessivo pari a circa 1,3 miliardi ), operate dalla società su “immobili, impianti e macchinari” nel bilancio consolidato 2016 – che – avrebbero dovuto, almeno in parte, essere rilevate, per competenza economica, nell’esercizio precedente”, come si legge in una nota di Saipem del 5 marzo scorso. Inoltre, l’autorità ha accusato il gruppo di non aver tenuto in debito conto le modifiche dei profili di rischio dei Paesi in cui opera, oltre che l’impatto del “venir meno del consolidamento di Saipem nel gruppo Eni”.
Il punto è che il bilancio 2015 di Saipem è quello su cui fa perno l’ingresso della Cassa Depositi e Prestiti nell’azionariato della società grazie all’acquisto del 12,5% del capitale dall’Eni che ha così incassato 463 provvidenziali milioni in un momento di difficoltà. Una sorta di operazione di sistema in salsa renziana, quindi, che ha visto la cassaforte del Tesoro togliere le castagne dal fuoco all’altra grande partecipata pubblica che aveva ottenuto anche “il deconsolidamento di Saipem e il rimborso di finanziamenti netti Eni per 6,1 miliardi”. Proprio in quel periodo, poi, Saipem aveva avviato una pesante pulizia di bilancio svalutando 906 milioni nel 2015 e 2,3 miliardi nel 2016. Da allora per l’azienda delle infrastrutture petrolifere era iniziata una complessa fase di rilancio industriale su cui hanno pesato anche le inchieste giudiziarie sulle presunte tangenti pagate in Algeria.