Cinema

Se la strada potesse parlare, l’amore ai tempi del razzismo: il nuovo film del regista di Moonlight

Il premio Oscar Barry Jenkins condensa emozioni, liturgie familiari, love story, dialoghi oltre il vetro del carcere, in un raffinato, ricercatissimo ed estetizzante quadro autoriale dove l’attenzione del taglio di luce, del colore delle tende e degli abiti è pari al riguardo per l’intensità recitativa e per il rimescolamento suadente di piani temporali e spaziali delle vicende narrate

di Davide Turrini

Se Beale Street potesse parlare… racconterebbe il razzismo istituzionalizzato negli Stati Uniti d’America. Barry Jenkins al terzo lungometraggio, con un secondo da Oscar (Moonlight, 2016, quello della busta scambiata con La La Land), adatta in immagini il libro omonimo del 1974 di un grandissimo scrittore, poco conosciuto in Italia, come James Baldwin.

Harlem, primi anni settanta, Fonny (Stephan James) e Tish (Kiki Layne) sono giovani, innamorati e afroamericani. Fonny è uno scultore aitante un po’ bohemien, Tish un groviglio di innocenza e bellezza da lasciare senza fiato. Cresciuti insieme, famiglie litigiosette tra loro ma vicine, i due sognano un futuro di normalità e libertà. L’appartamento che nessuno vuole affittargli perché neri, il lavoro di lei come commessa in una profumeria dei grandi magazzini, le storie di ordinaria violenza subite dai ragazzi della comunità afro di New York.

Poi lo strapiombo, il dramma, l’ingiustizia. Fonny viene accusato di aver stuprato una ragazza. E nonostante la provenienza piccolo borghese, nessuna marginalità a carico, è lui il colpevole. Comunque. “La partita è truccata”. Storicamente. Ideologicamente. Galera per Fonny e un bimbo che nascerà tra nove mesi appena concepito nel grembo di Tish. Se la strada potesse parlare racconta questa zavorra razzista ineliminabile, una colpa involontaria eterna, anche in un contesto urbano come la democratica New York.

Jenkins condensa emozioni, liturgie familiari, love story, dialoghi oltre il vetro del carcere, in un raffinato, ricercatissimo ed estetizzante quadro autoriale dove l’attenzione del taglio di luce, del colore delle tende e degli abiti è pari al riguardo per l’intensità recitativa e per il rimescolamento suadente di piani temporali e spaziali delle vicende narrate. Il palco, come negli altri lavori di Jenkins, è solo afroamericano. I primi piani fronte macchina con soggettiva impossibile sono oramai Jenkins touch. Golden globe come miglior attrice non  protagonista a Regina King (la madre di Tish) forse un po’ troppo generoso. In sala dal 24 gennaio con LuckyRed.  

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