Ho subito pensato di aver beccato una fake news e ho riflettuto sulle conseguenze della diffusione di una notizia priva di fondamento. La preoccupazione è stata subito grande. Quando ho scoperto che invece era tutto vero, la preoccupazione – almeno la mia – ha assunto dimensioni madornali. La designazione di Pasquale Zagaria, in arte Lino Banfi, a commissario italiano all’Unesco mi ha tramortito e ho impiegato almeno mezz’ora a riportare il mio sguardo allibito – fisso nel vuoto – alla normale mobilità oculare.

Premesso che ho sempre preferito Sean Connery a Lino Banfi, non digito alla tastiera perché adirato che quel dannato inossidabile scozzese non sia mai assurto a uno scranno delle Nazioni Unite. Scrivo per sfogare il mio legittimo stupore, per attutire l’urto delle mie convinzioni che si infrangono sugli scogli della persuasione che in tutti i contesti debbano esistere criteri di scelta di elementare plausibilità.

Ho ascoltato e riascoltato, ho letto e riletto più volte la dichiarazione del vicepremier e ministro Luigi Di Maio, quasi non fossi capace di intendere: “Ne approfittiamo per dare una notizia all’Italia che a me riempie di orgoglio: abbiamo individuato Lino Banfi perché rappresenti l’Italia nella commissione italiana per l’Unesco. Abbiamo fatto Lino Banfi patrimonio dell’Unesco“. Ho anche bevuto un bicchier d’acqua, come si conviene dopo un forte trauma. Ero persino tentato di incazzarmi, ma poi la mia vena goliardica ha preso fortunatamente il sopravvento su ogni altro inutile istinto.

Ricordo – sarà il rincoglionimento che avanza con l’età – la primavera del 2012 e una indagine che costrinse il signor Pasquale a venire a dare spiegazioni negli uffici del Gat Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Guardia di Finanza. L’operazione di servizio (a differenza di chi sceglieva nomi epici) era stata battezzata Magna Magna cum laude e riguardava un ateneo inesistente che concedeva titoli accademici a personaggi illustri o semplicemente conosciuti che – inebriati da cotanto onore – non verificavano l’infondatezza del riconoscimento e l’inattendibilità della sedicente università.

Non si parlava ancora di fake news, ma già allora non sarebbe guastato un minuscolo “fact checking”. Nelle medesime mancate verifiche è incorsa, infatti, anche l’ammiraglia dell’informazione Rai. Il Tg1 si è bevuto come vera l’attribuzione della laurea fasulla facendo a suo tempo un importante servizio giornalistico tutt’ora disponibile online per chi vuole gustarsi una chicca prelibata. Anche dopo lo smascheramento della combriccola che sfornava dottorati e diplomi, persino l’Ansa nel 2017 fa sua la “fake news”. Riprendendo Skuola.net, la più importante Agenzia italiana di stampa annovera tra i riconoscimenti “honoris causa” la famosa laurea in Scienze della comunicazione rilasciata a Lino Banfi dalla fantomatica Università Giovanni Paolo I o UniPapaLuciani che dir si voglia, dimenticando (e sarebbe bastata una banale ricerca d’archivio) di aver lanciato qualche anno prima la scandalosa circostanza.

Una finta laurea probabilmente non la si nega a nessuno e l’appellare “dottò” riservato a chi cercava di posteggiare l’auto ha fatto la fortuna di tanti parcheggiatori abusivi. Oggi se qualcuno vuole vantare un titolo di studio mai conseguito può facilmente inserirlo nel proprio curriculum per risolvere il proprio handicap scolastico, procedendo a una “autocertificazione” che – pur non prevista dal nostro ordinamento – ha conosciuto recentemente numerosi casi eclatanti. Si potrebbero fare nomi e cognomi di personaggi di spicco che hanno barato (anzitutto con loro stessi), ma non ne vale la pena. Per me già sufficientemente feriti, per loro incredibilmente imperturbabili.

Il 14 febbraio 2014 proprio qui, con tono ridanciano, immaginavo Alvaro Vitali premier. Oggi mi sento mortificato perché l’inconfutabile realtà ha incenerito la mia pur fervida fantasia.

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