Confermando le parole di alcuni pentiti, ha contribuito alla conclusione dell’indagine sulla mafia foggiana sfociata nell’Operazione Cartagine, nel 1994, che ha poi portato a 53 condanne. Anche per il suo ex compagno, uno dei boss, ora ai domiciliari. "Io invece mi sento come in prigione". E le garanzie di sostegno economico e psicologico previste anche dalla nuova legge restano solo sulla carta. Il sottosegretario Gaetti: "Molte di queste persone, quando accettano di testimoniare, non sono preparate allo stravolgimento che sta per compiersi nella loro vita. Dobbiamo fare di più"
“Non volevo abortire di nuovo e gli ho chiesto di lasciarmi andare perché potessi vivere insieme a mio figlio, ma lui mi ha portato in campagna, mi ha fatto spogliare e inginocchiare. Mi ha messo la pistola in bocca e ha detto che, con tutto quello che sapevo, non poteva lasciarmi andare e che sarebbero arrivati i suoi amici per violentarmi, perché era quello che meritavo. Mi sentivo come già morta, ma l’ho supplicato di farmi vivere. Allora mi ha detto che per quella volta poteva lasciar correre, ma che qualcosa doveva farmela: mi ha preso per i capelli e mi ha urinato sul viso”. Sono le parole della signora Maria, nome di fantasia, per anni compagna di un ex boss della mafia di Cerignola (Foggia). Il 4 gennaio 2019 la sua storia è stata raccontata nel corso della trasmissione ‘FuoriGioco’, in diretta su Radio Rai1 e, pochi giorni fa, in un servizio andato in onda al Tg3. “Ho aiutato lo Stato, raccontando tutto. Ma sono stata abbandonata”, denuncia. E non è l’unica, nonostante la nuova legge sui testimoni di giustizia come Maria sia entrata in vigore nel febbraio 2018. Ma diversi regolamenti non sono ancora stati adottati.
LA TESTIMONE DI GIUSTIZIA – La donna, confermando le parole di alcuni pentiti, ha contribuito nel 1994 alla conclusione dell’indagine sulla mafia foggiana sfociata nell’Operazione Cartagine, che ha poi portato a 53 condanne, 17 delle quali ergastoli. Anche per il suo ex compagno, uno dei boss più influenti della criminalità organizzata cerignolana, quell’uomo che l’aveva stuprata e umiliata ripetutamente. Oggi, dopo un quarto di secolo, lui è ai domiciliari (e non è l’unico). “Io invece, che ho aiutato lo Stato – racconta Maria – sono stata lasciata sola e sono come in prigione. È possibile che, dopo tutto quello che abbiamo fatto e abbiamo perso, lo Stato non riesca a garantire una vita dignitosa a noi testimoni di giustizia?”. Una domanda che ilfattoquotidiano.it ha girato a Luigi Gaetti (M5S), sottosegretario all’Interno e vicepresidente della Commissione Centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione. “La legge 6, entrata in vigore il 21 febbraio scorso, offre più assistenza ai testimoni di giustizia – spiega Gaetti – in primis con l’inserimento lavorativo, ma oggi ci troviamo ad affrontare anche situazioni meno recenti. Non posso escludere che, nei decenni passati, qualcosa non abbia funzionato, posso solo garantire il nostro impegno attuale”.
LA SCELTA DI TESTIMONIARE – Nel caso di Maria, parliamo di 25 anni fa. Ma il ricordo è vivo: “Mi ha costretta ad abortire quando sono rimasta incinta la prima volta e mi picchiava a sangue, con mazze dal baseball e con il nerbo, quello che si usa con gli animali”. Poi il punto di rottura: “Quando ho capito che aveva ucciso tre ragazzi. Era troppo per me”. Lei riuscì a scappare e a salvare suo figlio. Stava cercando di rifarsi una vita. “Liguori e Carofiglio (Luigi Liguori e Gianrico Carofiglio, all’epoca assegnato alla Dda di Bari il primo e titolare dell’inchiesta che portò al processo Cartagine il secondo, ndr) mi trovarono e mi chiesero di testimoniare per aiutare lo Stato a bloccarli”. Lei acconsentì anche se, a differenza di quanto avviene per i pentiti, non avrebbe avuto nulla in cambio.
L’OPERAZIONE CARTAGINE – Il resto lo fece la guerra per strappare il potere al clan egemone a Cerignola, quello dei Piarulli-Ferraro. Una mattanza che seminò morte: 67 omicidi in sei anni. Fino al blitz del 17 giugno 1994: 83 ordini di custodia cautelare. In carcere, all’ergastolo, finì anche l’ex compagno di Maria. Alla fine furono condannati 53 imputati, una trentina dei quali sono stati rimessi in libertà in seguito a perizie che ne avrebbero attestato disturbi psichici. Oggi anche quell’uomo (condannato a due ergastoli) è ai domiciliari.
LA STORIA DI MARIA – In tutti questi anni, invece, a Maria è stata stravolta la vita. La sua storia è raccontata nel libro ‘Non la picchiare così. Sola contro la mafia’, scritto da Francesco Minervini ed edito da La Meridiana. Il figlio è rimasto con lei fino a quando non è diventato maggiorenne e ci sono stati momenti in cui la situazione era diventata davvero difficile, anche dal punto di vista economico. Poi il ragazzo ha preferito rinunciare al programma di protezione e ricominciare in un luogo lontano. “Maria vive una dimensione di abbandono – spiega l’autore a ilfattoquotidiano.it – dovuta al fatto che queste persone hanno una non-vita, non possono riprendere vecchi rapporti, non possono legarsi a nessuno, vengono spostati periodicamente. Non riescono a vedere alcuna prospettiva”. A questo si aggiunge il problema di un “riconoscimento del valore che non arriva – aggiunge Minervini – come è capitato anche ad altri testimoni di giustizia, come Vincenzo Conticello, l’imprenditore palermitano che denunciò i suoi estorsori e al quale a dicembre 2018 è stata comunicata la revoca della scorta ‘per cessato pericolo’”.
“MI HANNO ABBANDONATA” – Maria ha perso l’identità, “i familiari, i contatti e i profumi della mia terra”. A ‘Fuorigioco’ ha raccontato di aver trovato un lavoro e di averlo poi perso, un paio di anni fa a causa di una malattia. Quando ha chiesto aiuto alla Commissione Centrale di protezione “mi hanno risposto che ero già stata pagata. Ho tentato tre volte il suicidio”. Maria ha chiesto il riconoscimento del danno biologico, ma questo non le garantisce di condurre una vita serena, anche perché – come ha spiegato il suo legale – ci sono benefici, sovvenzioni e altri sostegni economici che vengono riconosciuti, ma nell’applicazione sono farraginosi ed entrano in contrasto. E poi non le restituiscono i suoi affetti. Perché mentre il boss condannato all’ergastolo è circondato dai suoi cari, lei vive nella paura e fa fatica persino ad avere notizie della sua famiglia: “Dopo tutto quello che ho fatto avrei voluto che qualcuno mi dicesse grazie, signora grazie”. Oggi si ritiene, insieme al figlio, vittima di mafia e come tale chiede di essere riconosciuta. “Nelle ultime settimane si è molto discusso di testimoni di giustizia – commenta il sottosegretario Gaetti – e non sono mai intervenuto perché la materia di cui si occupa la Commissione Centrale è secretata. Non posso entrare nel merito della storia della signora Maria che, però, dovrei ascoltare a breve, perché ha chiesto di essere audita. Sto studiando le vecchie pratiche e che per molte di queste situazioni esistono atti al Tar e al Consiglio di Stato, quindi non è facile intervenire nuovamente”. La speranza è nella nuova legge (e, soprattutto, nella sua concreta attuazione) affinché non si incorra negli errori del passato.
LA NUOVA LEGGE – La riforma sui testimoni di giustizia entrata in vigore a febbraio 2018 introduce una definizione più stretta di testimone di giustizia, figura molto diversa da quella del collaboratore, perché si tratta di persone che non hanno commesso reati, ma sono vittime o hanno assistito a crimini e per questo si trovano in situazioni di grave pericolo. La nuova legge prevede misure di protezione speciali, da individuare caso per caso, e che possono includere il sostegno economico, il reinserimento sociale e lavorativo. “Rispetto al passato – spiega a ilfattoquotidiano.it Gaetti – oggi si cerca di garantite la permanenza nella località di origine, mentre trasferimento in località protette e cambiamento di generalità vengono adottati solo quando altre forme di tutela risultano inadeguate”. Ai testimoni, stando alla legge (alcuni regolamenti di attuazione, ai quali si sta lavorando, non sono ancora stati adottati, ndr) vengono riconosciuti assegno, pagamento delle spese per esigenze sanitarie, assistenza legale, indennizzo a forfait per il pregiudizio subìto a causa della testimonianza resa, alloggio e, se c’è un trasferimento definitivo, l’acquisizione al patrimonio dello Stato degli immobili di proprietà, dietro corresponsione dell’equivalente in denaro al valore di mercato. Se il testimone non può conservare il posto di lavoro ha diritto al trasferimento presso altre amministrazioni o sedi. Se perde il lavoro a causa della testimonianza resa, la norma prevede “il reperimento di un posto di lavoro, ancorché temporaneo, equivalente per posizione e mansione a quello precedentemente svolto”.
I CONTI COL PASSATO – Non sempre, però, nella prassi le cose sono andate e vanno così. Spesso i testimoni raccontano di ostacoli all’applicazione di garanzie, che rischiano di rimanere solo sulla carta: si va da contributi irrisori ai rimborsi sanitari per i quali si aspetta anche anni, fino alla frustrazione di dover rinunciare a vedere i propri parenti che sanno male. “Dagli inizi di settembre a oggi – spiega Gaetti – ho audito una trentina di testimoni di giustizia e mi sono reso conto delle difficoltà di queste persone, che non hanno alcuna colpa e che hanno solo fatto il loro dovere di cittadini. Molte di queste, quando accettano, non sono preparate allo stravolgimento che sta per compiersi nella loro vita”. Non è solo una questione economica. “Le complicazioni maggiori sono psicologiche – aggiunge – perché, soprattutto in passato, i testimoni perdevano i propri affetti. Oggi si cerca di lasciarli nei luoghi dove hanno sempre vissuto, ma questo comporta il rischio di costringerli a una vita monastica. Le reazioni sono molto diverse: c’è chi riesce anche con difficoltà ad adeguarsi e a ‘mimetizzarsi’ e chi non regge l’isolamento”.
“NON SIAMO INDIFFERENTI” – Per quanto riguarda l’aspetto economico, oggi è previsto un inserimento lavorativo nella pubblica amministrazione. “Abbiamo 48 persone che lavorano per lo Stato – spiega Gaetti – a cui nei prossimi mesi se ne aggiungeranno altre quattro”. Nella storia i testimoni di giustizia sono stati circa 300, 250 quelli già usciti dal programma. “Non siamo indifferenti a chi segnala le difficoltà incontrate – commenta il sottosegretario – ma non posso fare a meno di pensare che la maggior parte dei testimoni riesce a vivere la propria vita. Probabilmente c’è un gruppo di persone che aveva bisogno di un maggiore sostegno psicologico e, da questo punto di vista, nel passato non c’è stato un supporto importante. D’altro canto sono arrivati prima i testimoni, poi la prassi e poi la legge”.
L’ATTUAZIONE – Proprio per quanto riguarda la norma entrata in vigore nel 2018, sono diversi i regolamenti per cui si aspetta l’adozione. “Due sono in fase conclusiva – spiega Gaetti – e riguardano posto di lavoro e cambio di generalità, mentre sono aperti altri due tavoli, rispettivamente sui testimoni di giustizia che sono anche vittime di racket e sul cambiamento delle disposizioni per la quantificazione del danno biologico, che la prassi ha rilevato essere piuttosto difficile. Oggi c’è un rimborso forfettario. Insomma in primavera conto di chiudere il cerchio”.