di Riccardo Mastrorillo

Finalmente il governo, giovedì 17 gennaio, ha varato il decreto e possiamo affrontare con cognizione di causa il cavallo di battaglia della campagna elettorale del Movimento 5 stelle, quello che loro chiamano reddito di cittadinanza. Abbiamo già scritto e spiegato che il “reddito di cittadinanza” dovrebbe essere un’altra cosa, cioè un provvedimento universale atto a garantire appunto un reddito a tutti i cittadini, a prescindere dalle condizioni sociali ed economiche, reddito che sarebbe finanziato da una seria progressività fiscale, atta a quel riequilibrio economico che è uno dei cardini per garantire a ciascuno pari opportunità di partenza.

Analizzando il provvedimento, saltano agli occhi alcune macroscopiche incongruenze. Innanzitutto, non essendo una misura universalistica, presuppone una serie di condizioni per poter fare la domanda, talmente complesse che probabilmente il costo di burocrazie, carte prepagate e controlli alla fine potrebbe essere elevatissimo. Dopodiché, già il fatto che si debba fare una “domanda” presuppone e avvalora il principio che ci sia una figura che può “rispondere”, con l’annesso e connesso immorale potere esercitato da qualcuno su qualcun altro.

Ma ci sono anche dei paradossi di profonda ingiustizia. Facciamo un esempio: un cittadino che guadagna circa 9mila euro l’anno e paga un affitto di 250 euro al mese non ha i requisiti per il reddito di cittadinanza, mentre un cittadino con analoga situazione immobiliare, ma con un reddito di 5mila euro l’anno, percepirebbe 4mila euro di Rdc, più 3mila euro l’anno come integrazione per il canone d’affitto. Come accade quando applichi la cattiva politica all’aritmetica, i conti non tornano: con il reddito di cittadinanza il cittadino più povero incasserebbe 250 euro al mese in più dell’escluso.

Nel pomeriggio del 17 Matteo Salvini dichiarava ai giornalisti, uscendo dal Senato: “Il Consiglio dei ministri andrà liscio, conto duri mezz’ora”, e tanto è durato un Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto approvare, quindi prima valutare e discutere, un decreto di 24 pagine su un provvedimento rivoluzionario, con “soldi veri” – come ha specificato Salvini in conferenza stampa, 22 miliardi di euro – e liberare un milione di posti di lavoro, visto che con quota 100 un milione di persone andrà in pensione.

E per discutere e varare tutto questo, un organo che ha la responsabilità collegiale legale e politica ha impiegato poco meno di mezz’ora? Anzi “segnando un giorno storico, in cui, in poco più di venti minuti, il Consiglio dei ministri ha deciso di fondare un nuovo welfare state in Italia“, come ha entusiasticamente detto Luigi Di Maio nella conferenza stampa durata quasi il doppio del Consiglio dei ministri. Non è un provvedimento di welfare, questo cosiddetto reddito di cittadinanza. Lo sarebbe un vero reddito di cittadinanza, ma questo è un provvedimento che riguarda le politiche del lavoro.

L’italiano è la lingua più ricca al mondo, un concetto può essere espresso con più termini, ogni sfaccettatura di qualcosa si può cogliere, come in un quadro d’autore con la giusta luce, il perfetto colore e la precisione visiva, usando il termine corretto. Invece un nugolo di cialtroni, proditoriamente al potere, utilizza parole a sproposito, continuamente, ogni giorno. E così: un pregiudicato monopolista ama definirsi liberale, mentre un fascista eversivo e secessionista si definisce sovranista, e infine un sussidio agli inoccupati viene definito reddito di cittadinanza.

Siamo da sempre convinti assertori che le teorie liberiste, quelle vere – per intenderci quelle di Von Hayek e di Milton Friedman – non siano sufficienti a definire una società liberale, preferendo Keynes e Beveridge come ispiratori di politiche economiche. Da oggi, però quello che per noi sarebbe dovuto essere il “reddito di cittadinanza”, sarà chiamato “imposta negativa sul reddito”, che era appunto un’idea di Friedman. Non è esattamente lo strumento di welfare pensato il secolo scorso dall’economista e filosofo Philippe van Parijs, quando propose il basic income, ma è indubbiamente a esso più vicino di questa pagliacciata.

Usare una dizione liberista potrebbe servire anche a spiegare meglio, alla distratta e provinciale politica italiana – quella prima del governo del cambiamento, per intenderci – che il welfare in Italia andrebbe totalmente ripensato, smettendola appunto con la politica dei sussidi. Come ci insegna Giovanni Perazzoli, il filosofo liberale che per primo ha parlato in Italia di questo: “uno Stato sociale universalistico implica la cancellazione di quello corporativo e della contrattazione caso per caso, che rende protagonisti il politico, il sindacalistica e l’imprenditore. Il che significa potere, clientele, gigantesca inefficienza pagata dai contribuenti”. Abbiamo varato l’ennesimo sussidio, partirà il primo di aprile: non c’è altro da aggiungere.

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