di Roberto Iannuzzi *

Il 25 gennaio di otto anni fa – il giorno della rabbia, segnato da manifestazioni in numerose città egiziane – faceva entrare a pieno titolo l’Egitto nel novero dei Paesi colpiti dalle rivolte arabe, iniziate il mese precedente in Tunisia e rapidamente dilagate fino allo Yemen.

Otto anni dopo, mentre i gilet gialli fanno sentire la loro voce nelle strade di Francia, l’eco del malcontento arabo sembra essersi persa, soffocata dai conflitti scoppiati nella regione (dalla Libia alla Siria) e dalla normalizzazione – e talvolta dalla vera e propria repressione – avvenuta in Paesi come l’Egitto.

Nel frattempo, la situazione economica e sociale delle società arabe non è affatto migliorata, ed è spesso perfino peggiorata. Ciò è vero anche in Tunisia, in passato descritta come l’unico successo delle cosiddette primavere arabe. Non è dunque un caso che le manifestazioni francesi abbiano avuto una certa risonanza sulla sponda sud del Mediterraneo, sebbene la cosa sia passata perlopiù inosservata in Europa.

In Tunisia le proteste scoppiate in occasione dell’anniversario della rivolta del dicembre 2010 hanno visto la comparsa del movimento dei gilet rossi, le cui rivendicazioni comprendono un aumento del salario minimo, la riforma della sanità, dell’istruzione e del trasporto pubblico, e più posti di lavoro. A fine anno si sono registrati duri scontri con le forze dell’ordine a Kasserine e in altre zone del Paese, dopo che un giovane giornalista è morto dopo essersi dato fuoco, un gesto forse volutamente rievocativo di quello compiuto otto anni prima da Mohammed Bouazizi a Sidi Bouzid, che segnò l’inizio dell’ondata di rivolta in tutto il mondo arabo.

In Egitto, Mohammed Ramadan – un avvocato che aveva pubblicato sui social una foto che lo ritraeva con indosso un gilet giallo in segno di solidarietà con i manifestanti francesi – è stato immediatamente arrestato e le autorità hanno imposto restrizioni alla vendita di gilet gialli. I giornali governativi egiziani hanno condannato le proteste di piazza avvenute in Francia, bollandole come un esempio di caos e mettendo in evidenza le devastazioni che hanno prodotto. Il regime del presidente al-Sisi teme che le dimostrazioni francesi possano essere fonte di ispirazione per i cittadini egiziani, soprattutto alla luce del sempre più alto costo della vita che sta strozzando la classe media del Paese.

Il malcontento riesplode a intervalli regolari anche in Giordania, dove l’ultima ondata di manifestazioni ha avuto inizio lo scorso 6 dicembre, spingendo alcuni osservatori locali a chiedersi se l’ispirazione dei gilet gialli non avesse raggiunto anche il Vicino Oriente. I dimostranti scesi in piazza chiedevano riforme economiche e politiche, ma soprattutto l’abrogazione delle misure di austerità imposte dal governo sulla base delle ricette del Fondo monetario internazionale (Fmi).

Questi episodi mostrano come, malgrado la frattura prodotta nel Mediterraneo dal fallimento delle rivolte arabe da un lato e dalla crisi europea dall’altro, il processo di osmosi delle idee fra le due sponde non si è mai realmente arrestato.

Del resto un fenomeno analogo ma inverso si ebbe nel 2011. Quando nel mese di maggio gli indignados spagnoli si riunirono a Puerta del Sol, a Madrid, per chiedere lavoro, uguaglianza e “vera democrazia”, il paragone con l’ormai celebre piazza Tahrir del Cairo apparve scontato a osservatori spagnoli ed europei. E lo stesso movimento Occupy Wall Street a New York prese a modello, fra gli altri, i rivoluzionari egiziani di Piazza Tahrir.

Naturalmente, al di là delle ispirazioni e degli spunti che provengono dai social media così come dai mezzi di informazione tradizionali, i gilet gialli in Francia e le proteste nel mondo arabo non sono fenomeni caratterizzati da un legame gerarchico o da un’affiliazione diretta, così come non lo erano i movimenti di protesta arabi e occidentali nel 2011. In entrambi i casi si tratta di fenomeni perlopiù “paralleli” che, oggi come allora, traggono origine da realtà politiche e socio-economiche variegate.

Al di là delle differenze, in queste espressioni di malcontento vi è però un elemento unificante che non può essere trascurato. Tale elemento è la rivolta contro il modello neoliberista, che è stato applicato con diversi tempi e modi sia in Europa che nel mondo arabo, producendo per certi versi risultati simili: smantellamento dello stato sociale e aumento delle disuguaglianze.

La riconversione delle repubbliche arabe “socialiste” all’economia di mercato avvenne in maniera massiccia a partire dagli anni 90 del secolo scorso sulla base dei programmi di aggiustamento strutturale del Fmi. In un contesto autoritario come quello arabo, le liberalizzazioni e le privatizzazioni rafforzarono le élite economiche e le strutture clientelari che costituivano la spina dorsale dei regimi. In Europa, a partire dagli anni 90, si affermò una variante neoliberale di integrazione comunitaria (spesso imposta dai cosiddetti parametri di Maastricht) che venne giudicata la forma “migliore” per rispondere agli imperativi economici della globalizzazione. Essa portò invariabilmente all’erosione dei sistemi di welfare precedentemente affermatisi con le socialdemocrazie europee.

Se quella araba del 2011 fu una ribellione contro la sottrazione di diritti economici e politici da parte della dittatura, le mobilitazioni occidentali dello stesso periodo furono un campanello d’allarme contro il progressivo logoramento della democrazia. Ciò che i movimenti di protesta occidentali denunciavano era che in democrazie “commissariate” o “sospese” a causa della crisi si stava riscrivendo unilateralmente il contratto sociale che fino a quel momento aveva garantito diritti e servizi essenziali.

In Europa, le ricette di austerità vennero adottate come rimedio agli alti livelli di debito degli Stati, sebbene alla radice della crisi vi fosse stato l’indebitamento dei grandi istituti finanziari, non quello pubblico. Al ridimensionamento del welfare e della spesa pubblica, si è poi affiancata una continua deflazione salariale.

Sulla sponda sud del Mediterraneo, un’analoga ondata di austerità sta soffocando la classe media di Paesi come Tunisia, Egitto e Giordania. Ancora una volta le ricette per “risanare” questi Paesi dopo lo sconvolgimento delle rivolte arabe sono quelle neoliberiste fornite dal Fmi, e i risultati non sembrano essere migliori rispetto al passato. Al di là delle differenze, dunque, le rivendicazioni dei gilet gialli francesi e dei manifestanti arabi hanno più elementi in comune di quanto si potrebbe immaginare.

* Analista di politica internazionale, autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).

@riannuzziGPC

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