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Editoria, è vero: c’è un problema di cura dei libri. Ma così rischiamo di perderci

Editoria, è vero: c’è un problema di cura dei libri. Ma così rischiamo di perderci
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Il post di Rosario Esposito La Rossa dal titolo I piccoli editori sono ignoranti contiene una dura critica alla piccola editoria accusata di essere lamentosa e approssimativa, ma chiama in causa  tutti gli editori e un certo modo di pubblicare i libri: sempre meno curato anche nella impaginazione, nella grafica, non solo nella selezione dei contenuti. Ha ragione: a prevalere è l’urgenza di arrivare in libreria, pur sapendo che la partita sarà durissima perché sempre meno persone considerano il libro un oggetto necessario e sempre più potenziali acquirenti preferiscono andare sulla rete e lì viaggiare tra mille sollecitazioni oppure seguire serie tv anche sofisticate e ben fatte, quindi in sintonia con i gusti e le attese di un lettore forte e ben attrezzato.

L’unico modo che noi editori abbiamo per contrastare la perdita di lettori è la qualità, qualità dei contenuti e della confezione, dell’oggetto libro, in quanto unico, da secoli uguale a se stesso. Le cose da dire importanti sono ancora oggi depositate nei libri, mentre in rete e sui social tutto è volatile, superabile, provvisorio, come se le parole prendessero un’altra velocità e non fossero le stesse di quelle della carta stampata. “Ho scritto un libro” è ancora diverso da dire “ho scritto un post”. Un libro, su carta o digitale non importa, è costruito grazie a una combinazione di parole che presuppone un disegno, un’impalcatura logica capace di reggere per molte pagine. E che, come sottolinea Esposito, si appoggia a regole formali e stilistiche che vengono da molto lontano, e che sono sempre le stesse.

Il libro rappresenta l’ordine della mente, è innanzitutto un atto formale che risponde a un impianto di norme codificate. Tutto il mondo sta lì dentro, in una gabbia con una giustezza definita, una spaziatura regolata, un’interlinea, un’altezza pagina… Se vogliamo, autore ed editore insieme ogni volta che pubblicano un libro pensano di mettere ordine nel disordine del mondo e lo fanno spinti da una vena di temerarietà e presunzione, come se fosse un atto stravagante, quasi una magia e ogni autore avesse la formula segreta per raccontare in quel modo, cioè in quel numero di righe, in quelle pagine, con quelle parole, il senso o il non senso del mondo.

Fino ad oggi il libro apparteneva al nostro immaginario, oggetto tra gli altri oggetti, seppure particolare, ora la rivoluzione digitale ne ha rivelato tutta la sua intrinseca originalità, fino a farne un oggetto a parte, in più.

Se le cose stanno così, se trascuriamo la “bellezza” del libro cominciando a togliere dall’impalcatura quegli elementi che ne fanno un unicum, è possibile che esso diventerà sempre più uguale ad altri contenitori di parole, con il rischio, non calcolato, che ci perderemo in un mare disordinato di parole (i 140 caratteri di Twitter non bastano a regolare il pensiero, se mai lo disarticolano).  La nostra storia e la nostra identità si appoggiano sui libri, sono lo specchio di noi stessi, di quello che siamo, senza di loro, senza quella misura, quell’ordine, siamo niente.

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