Paul Mason, giornalista e saggista, è uno dei più influenti intellettuali di sinistra britannici. Di estrazione popolare, nel febbraio 2016 ha lasciato il ruolo di caporedattore economia di Channel 4 per essere libero dagli obblighi di imparzialità giornalistica. Influente attivista del Labour di Corbyn, si definisce un social-democratico radicale.
Cosa c’è alle radici di Brexit?
Il Regno Unito ha sempre avuto una relazione molto distaccata con l’Unione Europea e non ha mai voluto fare parte del suo progetto di consolidamento. Quando si è posta l’opzione di uscirne, l’élite di destra, nazionalista, imperialista, colonialista, se ne è impadronita, e ha liberato le oscure viscere del paese, ostile soprattutto all’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. Il voto è stato il risultato di questa ostilità.
Chi sono gli elettori laburisti che sostengono Leave?
Due categorie: chi vota Labour per abitudine ma è, culturalmente, di destra. Ma anche autentici laburisti che non hanno accettato un’immigrazione senza controllo e, per alcuni, senza vera integrazione. Per decenni il Regno Unito ha accolto e integrato immigrati dalle ex colonie, ma gli arrivi dall’Europa dell’est dopo il 2003 sono stati incontrollati. La ragione per sostenere Brexit da sinistra è che una offerta illimitata di lavoratori deprime i salari e consegna ai datori di lavoro milioni di persone senza cittadinanza e quindi senza diritto di voto… ed è una ragione molto convincente per chi già guadagna poco ed ha lottato duecento anni per quel diritto.
E questo, al di là del suo personale euro-scetticismo, Corbyn non può ignorarlo…
Corbyn non agisce per motivi personali ma sulla base del fatto che i 50 seggi che servono al Labour per formare il governo e porre fine all’austerità e agli attacchi ai lavoratori sono tutti fra i laburisti che hanno votato Leave in Inghilterra e Galles. In Scozia al contrario i laburisti sono progressisti e sostengono Remain. E c’è un altro fattore incredibile: nello spazio di una generazione, il vero cuore morale e culturale del Labour si è spostato nei grandi centri cosmopoliti. Tenere tutto insieme è molto complicato.
L’impressione è che il Labour sia due partiti profondamente diversi… teme una scissione?
No. Solo una dozzina di parlamentari nostalgici del blairismo si trovano profondamente a disagio nel Labour di Corbyn, gli altri condividono la sua visione. Ma la segmentazione demografica di cui parlavo è molto complessa: per esempio in ogni area che ha votato Leave c’è un nucleo di lavoratori sindacalizzati e progressisti e in tempi normali le divergenze potrebbero coesistere o unirsi contro la destra. Però Brexit fornisce alla destra – questo i lettori italiani lo capiscono bene – l’egemonia culturale su quella working class. È il noi contro loro, il popolo contro l’establishment.
Quindi è d’accordo con l’impressione che ormai Leave o Remain abbiano rimpiazzato gli schieramenti di partito?
Si, ma è un fenomeno recente, direi degli ultimi sei mesi, quando è apparso chiaro che l’accordo concordato con l’Ue sarebbe stato respinto. Spero ancora che Brexit come chiave di lettura del paese possa tornare nel vaso di Pandora.
Ma qual è il calcolo politico di Corbyn nel rifiutare il dialogo con la May?
Il 31% del paese vuole uscire senza accordo. È il 61% di chi ha votato Leave. I loro argomenti? “Non ci importa del collasso economico, purché ci liberiamo degli immigrati”. Nel dire “non parlo finché il no deal è sul tavolo”, Corbyn cerca di mostrarsi come il governo in pectore, per cui correre il rischio di no deal è da irresponsabili.
Quali scenari vede per uscire dall’impasse?
Sappiamo che entrambi i partiti si stanno preparando ad elezioni anticipate, malgrado la resistenza di molti Tories. Il 29 gennaio il Parlamento probabilmente approverà degli emendamenti che toglieranno di fatto al governo il controllo su Brexit, una crisi costituzionale senza precedenti. Il Labour sembra intenzionato a supportare almeno uno di questi emendamenti, che richiede una estensione dell’articolo 50 e un voto che escluda il no deal. Se questo accade, penso che Theresa May convocherà le elezioni.
E quale sarebbe la posizione del Labour su Brexit in campagna elettorale?
La mia opinione, condivisa da molti parlamentari laburisti, è che il Labour dovrebbe fare campagna per Remain. Se Corbyn avesse vinto le politiche del 2017 avremmo già Brexit. Ma gli elettori hanno scelto la May, che non è stata in grado di far accettare il suo accordo. Se due governi non sono stati in grado di portare avanti il mandato popolare del referendum, l’obbligo morale di rispettarlo evapora. Ma più realisticamente credo che, a causa delle divisioni interne, il Labour farà campagna per una soft Brexit da trattare con Bruxelles e poi sottoporre a referendum, con la scelta fra il suo deal e Remain.
Senza l’opzione no deal?
Sono contrario all’opzione no deal in caso di referendum perché non ha la maggioranza in Parlamento. E perché ammetterla al voto significa dare spazio a mesi di propaganda neofascista, alt-right, che vuole un nuovo impero di suprematismo bianco. E non voglio che i teenagers di questo paese vengano esposti a quella propaganda sulle televisioni pubbliche. Sarebbe una tragedia culturale.
Quindi Corbyn, esattamente come la May, sta mettendo il partito prima della nazione.
No, sta mettendo la nazione prima dell’Unione europea. Io sono profondamente critico dell’Ue, penso che non possa sopravvivere se non abbandona il neoliberalismo. E penso che anche se restiamo dovremmo lottare per riformarla, riscrivendo completamente il Trattato di Lisbona: su questo Corbyn ha un dialogo aperto con i gruppi socialdemocratici e di sinistra al Parlamento europeo, per costruire un internazionalismo di classe che sostituisca il globalismo economico.
Ma il nostro compito ora è salvare la quinta democrazia del mondo dall’assalto della estrema destra, e se il prezzo per questo è una soft-Brexit io sono pronto a pagarlo, pur di non vedere il Regno Unito finire come l’Italia, con un governo che respinge le navi di migranti. Per quanto sia di destra, nemmeno il nostro governo conservatore arriva a tanto.