Elisabetta Portoghese, architetto e promotrice culturale nel comune alle porte di Roma, è stata la prima a farsi avanti con il sindaco Riccardo Travaglini per ospitare uno degli ospiti dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo sgomberato dal Viminale: "Li ho conosciuti da vicino, meritavano di continuare il loro percorso. Ora spero che tutti facciano la loro parte"
“Forse staremo un po’ stretti, ma non importa. Era una cosa che andava fatta”. Elisabetta Portoghese (nella foto a sinistra), conosciuta come ‘Bibi’, architetto paesaggista e promotrice culturale di Castelnuovo di Porto, è stata la prima a farsi avanti con il sindaco Riccardo Travaglini per ospitare uno dei ragazzi “cacciati” dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo sgomberato nei giorni scorsi. Lei che proprio in collaborazione con il Comune alle porte di Roma aveva organizzato, nel settembre scorso, un festival di fotografia dedicato ai lavori dei migranti ospiti del Cara. Ora che quei ragazzi rischiano di finire per strada, ha deciso di attivarsi. “Vivo con le mie figlie – spiega a IlFattoQuotidiano.it – La convivenza è sempre un’esperienza inizialmente difficile, ma con un po’ di spirito di collaborazione e la giusta educazione andrà bene. Faremo del nostro meglio”.
Non era scontato che Castelnuovo di Porto rispondesse in questa maniera all’appello del primo cittadino e delle associazioni. Sorpresa?
“Quello che vediamo in televisione ci spinge a fare qualcosa. Le persone stanno aprendo gli occhi, stanno capendo che lì, in mezzo al mare, ci sono degli esseri umani. E che i loro drammi, le loro tragedie, sono quelle di tutti noi”.
Molto spesso, però i sentimenti che si registrano in provincia sono differenti. E’ così anche a Castelnuovo?
“E’ così anche qui, non ci nascondiamo. Ma per fortuna, quando le politiche di integrazione funzionano, in una fetta di popolazione si scatena l’effetto contrario. Questo è successo a me e a tanti miei concittadini. Per dire che non dobbiamo arrenderci all’odio”.
Cosa l’ha spinta a dire: ‘Eccomi, ci sono’?
“Questi ragazzi li ho conosciuti da vicino. Abbiamo condiviso la bella esperienza del corso di fotografia e li ho seguito anche in altri progetti di inserimento. Ho visto che si stavano integrando, stavano imparando un lavoro, studiavano, si facevano volere bene. Meritavano di continuare il loro percorso”.
Che cosa le hanno detto le sue figlie? Non temete che la situazione possa crearvi dei problemi?
“Sì, certo ne ho parlato con la mia famiglia. Che dire, speriamo di no”.
Nemmeno il timore che vi siano problemi di convivenza?
“Quelli sono fisiologici, l’importante è il rispetto. La mia casa è stata sempre aperta al mondo. Lo era con i miei nonni, con i miei genitori, lo e’ anche per me e sono sicuro per le mie figlie. Certi valori non si perdono con le generazioni”.
Come ha accolto l’improvvisa chiusura del Cara?
“Il centro sarebbe stato chiuso prima o poi, era nell’aria. Il problema è la scelta improvvisa e disorganizzata. Se avessero dato tempo a questi ragazzi di organizzarsi e di mantenere una continuità territoriale, non ci sarebbe stato tutto questo clamore. Invece sono state le modalità ad aver scatenato le polemiche”.
Se gliene venisse data la possibilità, accogliere altri ragazzi in futuro, anche non conoscendoli direttamente?
“Come le dicevo, la mia casa è aperta. Certo, spero che tutti facciano la loro parte (ride, ndr)”.