Davide Civita è un medico internista al terzo anno di specializzazione in cardiologia nell’ospedale di Bad Reichenhall in Baviera. In Italia non è riuscito a passare il test d'ingresso a Medicina e si è laureato in Slovacchia. In Germania ha subito anche mobbing, "ma qui - dice - le tutele funzionano". E sui laureandi italiani dice: "Molti devono ancora finire gli esami e già si informano per venire a specializzarsi qui"
“Io amo il mio lavoro, sogno di diventare cardiologo da quando ho 18 anni. Ma tornassi indietro forse farei l’agricoltore, per stare con la mia famiglia. Non auguro a nessuno di essere costretto ad emigrare, come me”. Davide Civita è un medico internista, al terzo anno di specializzazione, in Germania. Lavora nell’ospedale di Bad Reichenhall in Baviera, vicino Salisburgo, nel reparto di terapia intensiva. Voler fare questo lavoro a tutti i costi ha richiesto sacrifici: ha dovuto rinunciare agli affetti e alla sua casa, ad Andria. Dalla Puglia ha intrapreso un viaggio che lo ha portato prima in Slovacchia, poi in Germania, dove ha conosciuto mobbing e discriminazione, ma anche tante soddisfazioni professionali. “Purtroppo la disonestà in Italia premia. Avrei potuto già avere una famiglia, per inseguire il lavoro ho rinunciato gli affetti”.
Dopo il liceo Davide si è iscritto alla facoltà di Biologia, a Siena. Deluso dall’ambiente, prova a seguire il suo sogno, la cardiologia, anche se tutti intorno a lui cercavano di indirizzarlo verso odontoiatria: “Tutti mi dicevano: papà è dentista, hai già tutto pronto”. Tenta due volte il test d’accesso alla facoltà di Medicina. Non passa. “Io non sono portato per i quiz”, ammette. Tuttavia Davide non è favorevole all’abolizione del numero chiuso, che per un attimo è sembrata una possibilità concreta, salvo la rapida retromarcia del governo che ha smentito tutto. “Il numero chiuso è necessario, ma il test così come è formulato non è indicativo delle abilità di un medico. Piuttosto, sarebbe il caso di mettere un limite alla ripetizione degli esami: nella mia università, al terzo tentativo fallito venivi espulso e dovevi ricominciare da capo. Così le persone non si parcheggiano in università e si laureano in tempi ragionevoli”. Comunque, riflette Davide, c’è un problema di domanda e offerta: la Federazione medici di medicina generale prevede un’emorragia di 45mila medici in 5 anni, solo parzialmente compensata dalle nuove assunzioni. “A che serve limitare i posti, se poi mancano i medici?”.
Così Davide si iscrive in un’università slovacca. Per caso, un collega del padre gli parla della facoltà di medicina a Kosice, gemellata con gli atenei di Pavia, Bari, e con la Federico II. Una città con un primo impatto difficile: file di enormi casermoni grigi, tutti uguali, una lingua sconosciuta e ostica. Una bella esperienza, ragiona con il senno di poi, ma impegnativa. E costosa: “Funziona come i college americani: ho dovuto investire 80mila euro per autofinanziarmi“. Ma lo smacco più grande è stato vedere altre persone che come lui erano state escluse dal test frequentare comunque l’università: “Ogni anno a medicina entra una valanga di ricorsisti, anche con un punteggio basso. E per le specializzazioni ci sono posti riservati per chi è già entrato nel sistema sanitario nazionale, magari entrando in una clinica privata. Questo favorisce i figli dei medici”. Sono pochissimi casi, ma esistono.
Presa la laurea torna in Italia e si rimette subito a studiare per i test d’ingresso alla specializzazione: cardiologia è molto ambita, i posti sono pochi. Anche stavolta, nulla da fare. Mentre aspetta di ripetere il test, chiede – e ottiene – un tirocinio non retribuito al San Raffaele: “Il mio sogno mi è passato tra le mani: sapevo che per me era solo una tappa temporanea, contavo i giorni che mi separavano dalla partenza“. Da Milano prova a mandare curricula in Svizzera: lo prendono per un posto in pronto soccorso, poi rimane a terra per via dei tagli al personale. Ultima tappa, la Germania. Finalmente arrivano le carte per l’approvazione. Ma l’ambiente non è facile. Nella prima clinica in cui lavora il mobbing è così pressante da costringerlo a dimettersi: “Mi chiamavano ‘pizzaiolo’, ‘mangiaspaghetti’. Lavoravo ad ogni festività, avevo accumulato 750 ore di straordinario, è dovuto intervenire un avvocato. Però va detta una cosa: qui è facile avere l’assistenza legale per i casi di discriminazione sul lavoro. Almeno le tutele funzionano”. Nella nuova struttura le cose vanno meglio, i rapporti con i nuovi colleghi sono buoni. Davide è contento del suo lavoro: “Faccio tantissima pratica, mi lasciano molta autonomia e questo è un ottimo incentivo”. Dice che la Germania è meta ambita da tantissimi laureandi italiani: “Molti devono ancora finire gli esami e già si informano per venire a fare la specializzazione qui”. Uno dei motivi è la richiesta di forza lavoro e lo stipendio, sensibilmente più alto, nonostante il costo della vita. Il gruppo Facebook “Medici Italiani in Germania”, con quasi 5mila iscritti, è il rifugio di chi cerca consigli su come ottenere l’Approbation, cioè il lasciapassare per lavorare da medico nel sistema tedesco.
Secondo Davide negli ospedali italiani c’è tanto da fare: per esempio, andrebbero riorganizzati i pronto soccorso e limitati gli sprechi. “C’è un problema gestionale di fondo: non si fa economia, non si controlla nemmeno quanti medicinali e farmaci vengono rubati. Gli specializzandi poi dovrebbero essere una risorsa. Nessuno vuole formarti, ma tutti ti cercano da specialista“. Il problema è anche politico, e parte dai vertici: “Al Ministero della Salute bisogna avere persone con una lunga esperienza negli ospedali, che sappiano quali siano i problemi e come intervenire“. A Davide mancano il sole, gli ulivi della campagna del nonno, i suoi fratelli: uno è in Svizzera, l’altro in Spagna. “Al più piccolo abbiamo suggerito di studiare Arte, pensa un po’”. Tornare in Italia per adesso resta un sogno: “Mi accontenterei di fare un’altra cosa, pur di stare vicino alla famiglia. Ma so che loro mi direbbero: dopo tutti i sacrifici che hai fatto cosa torni a fare?”.