E’ una resa senza condizioni quella cui Donald Trump è stato costretto sullo shutdown. Dopo aver rallentato per trentacinque giorni il funzionamento di molte agenzie del governo – lo shutdown più lungo della storia americana  – Trump cede e annuncia il rifinanziamento del governo. Pone una data, il 15 febbraio, entro la quale democratici e repubblicani dovranno trovare un accordo sulla sicurezza al confine. Ma dalla legge votata al Congresso sparisce ogni accenno al Muro. La sconfitta politica per lui è totale, resa ancora più cocente dall’arresto, nelle stesse ore, di uno dei suoi più intimi amici, Roger Stone.

“Non è una concessione”, ha detto Trump, parlando dal giardino della Casa Bianca. La realtà delle cose l’ha però riassunta con un tweet il senatore Bernie Sanders: “E’ patetico. Il 19 dicembre, Il Senato passò all’unanimità la stessa legge che voteremo ora. Siamo tornati esattamente dove eravamo. Grazie, signor Presidente, per aver chiuso il governo e tenuto 800mila impiegati federali in ostaggio. Tutto per niente!” Nella notte, con un tweet, il presidente ha cercato di correggere l’impressione di una resa. “Vorrei che le persone leggessero o ascoltassero le mie parole sul Muro. Io non ho in alcun modo ceduto”. La possibilità di una nuova chiusura del governo, dopo il 15 febbraio, viene quindi rilanciata, insieme all’opzione ultima, quella dichiarazione dello stato di emergenza al confine meridionale che darebbe alla Casa Bianca la possibilità di finanziare il Muro senza passare dal voto del Congresso.

E’ però altamente improbabile che Trump pensi di riaprire uno scontro che lo ha fortemente indebolito. A convincere la Casa Bianca alla resa, nelle ultime ore, sono state diverse cose. Anzitutto, l’impatto che lo shutdown cominciava ad avere su un numero sempre maggiore di persone. I ritardi nelle partenze in alcuni aeroporti del nord-est, in particolare al La Guardia di New York, hanno reso tangibile il rischio. A essere colpiti non erano più gli impiegati federali, le loro famiglie, o anche soltanto quelle fasce di popolazione beneficiarie dei servizi del governo. A essere colpita era la normalità della vita di milioni di americani. Se a questo si aggiungono le fosche previsioni sulle ricadute economiche future, si capisce il motivo della resa di Trump: andare avanti con lo shutdown sarebbe stato davvero insostenibile.

A questi fattori se ne aggiungono altri, più politici. Per un certo periodo, Trump e i suoi sono stati convinti che il biasimo per la chiusura del governo federale sarebbe ricaduto sui democratici. In fondo, il tema della sicurezza è quello che ha alimentato l’avventura politica del presidente. Non è stato così. I sondaggi di queste settimane hanno mostrato un trend costante: la maggioranza degli americani riteneva Trump (e i repubblicani) i maggiori responsabili dello shutdown. Una rilevazione Associated Press di due giorni fa dava la popolarità del presidente in caduta libera: solo il 34 per cento degli americani ne approva la politica, otto punti in meno rispetto all’inizio dello scontro sul Muro. Fonti della Casa Bianca raccontano anche che il circolo di collaboratori di Trump è rimasto basito dopo la scelta di Nancy Pelosi di ritirare l’invito per il discorso sullo stato dell’Unione. Pensavano che la mossa sarebbe stata accolta dal biasimo generale, ma non è stato così. Un atto clamoroso come impedire al presidente di parlare al Congresso, in queste condizioni, è apparso del tutto normale.

Si trattava di una situazione che la maggioranza dei repubblicani non poteva più tollerare. E questa è stata la ragione finale che ha convinto Trump a cedere. Sino a qualche ora fa la quasi totalità di deputati e senatori repubblicani, con qualche mugugno, ha sostenuto il presidente. Le ultime ore hanno mostrato più di un cedimento. Giovedì notte, dopo i voti contrapposti al Senato, si è riunita la conferenza repubblicana e il capogruppo Mitch McConnell ha avuto più di un problema a mantenere compatto il gruppo. “Ogni giorno è peggio – ha spiegato il senatore del North Dakota, Kevin Cramer – e non parlo solo della pressione sui dipendenti del governo federale, che sarebbe già abbastanza”. Due salari saltati per gli impiegati del governo; la sicurezza negli aeroporti a rischio; i riflessi negativi sull’economia nazionale: sono gli elementi che hanno portato il G.O.P. a spingere per la fine dello shutdown. Tra l’altro, anche in questo caso, le aspettative della Casa Bianca si sono rivelate errate. Trump sperava di guadagnare alla sua causa i democratici moderati: in realtà solo un democratico, Joe Manchin della West Virginia, ha abbracciato le sue posizioni sul Muro. Per il resto, Nancy Pelosi e Charles Schumer sono riusciti a mantenere compatto il gruppo. A sfaldarsi, sono stati invece i repubblicani.

Trump esce quindi, come detto, politicamente molto indebolito dallo scontro. L’intransigenza, gli scatti d’umore, la volubilità che nel passato hanno preso in contropiede gli avversari questa volta non sono serviti, anzi hanno rivelato un presidente debole e preda del proprio carattere. Di più, Trump rischia di alienarsi una parte consistente di quel mondo conservatore che della battaglia contro l’immigrazione ha fatto la sua bandiera. E’ da questo punto di vista particolarmente significativo il tweet con cui Ann Coulter, pasionaria dell’estrema destra, ha accolto la notizia della riapertura del governo: “Buone notizie per George Herbert Walker Bush: oggi non è più il maggiore buono a nulla a servire come presidente degli Stati Uniti”. Il confronto con l’odiato Bush senior, il moderato figlio dell’establishment, dà il senso della delusione dei conservatori: Trump ha ceduto sul punto più qualificante della sua strategia politica.

La sconfitta politica arriva del resto a poche ore dall’arresto di Roger Stone, amico di vecchia data di Trump, suo collaboratore e confidente durante la campagna del 2016. Le accuse nei confronti di Stone, rilasciato su cauzione, sono gravissime: tra le altre, quella di aver mentito al Congresso sui suoi rapporti con Wikileaks, che in piena campagna elettorale rese pubbliche le mail sottratte ai democratici dagli hackers russi. Stone avrebbe funzionato, secondo l’accusa dello special counsel Robert Mueller, come agente di collegamento tra Wikileaks e il team di Trump. “Non testimonierò mai contro il presidente”, ha detto Stone. La realtà è che, con le fortune politiche in rapido calo, anche la situazione giudiziaria di Trump si fa sempre più precaria. Praticamente tutti i suoi principali collaboratori nella campagna del 2016 sono stati arrestati o incriminati. Il prossimo passo, da parte del procuratore Mueller, potrebbe puntare molto in alto, alla famiglia: il genero, Jared Kushner; il figlio, Donald Jr.

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